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Disinformatico

4 de Setembro de 2012, 21:00 , por profy Giac ;-) - | No one following this article yet.
Blog di "Il Disinformatico"

Podcast RSI - Story: La beffa dei cookie rifiutati

19 de Abril de 2024, 7:00, por Il Disinformatico
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È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate qui sul sito della RSI (si apre in una finestra/scheda separata) e lo potete scaricare qui.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, Google Podcasts, Spotify e feed RSS.

Buon ascolto, e se vi interessano il testo di accompagnamento e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.

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[CLIP: Voce sintetica che legge un avviso di cookie]

Se provate a cliccare su “Rifiuto" quando un sito vi chiede se accettate o rifiutate i cookie, due siti su tre in Europa ignorano la vostra richiesta. Quella irritantissima, onnipresente finestrella che da anni compare quando visitiamo un sito per la prima volta sembra essere insomma una totale perdita di tempo. Perlomeno questo è il risultato di un esperimento svolto recentemente da un gruppo di ricercatori del Politecnico federale di Zurigo su un campione di quasi centomila siti popolari europei.

Questa è la storia dei cookie, del perché esistono, del motivo per cui siamo assillati da queste richieste di accettarli o rifiutarli, e di questa ricerca che a quanto pare mina alla base la loro esistenza.

Benvenuti alla puntata del 19 aprile 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]

Cookie, biscottini che vengono da lontano

Cookie, che in inglese americano vuol dire letteramente “biscotto”, è un termine informatico che arriva dagli anni Ottanta del secolo scorso, quando lo si usava nei sistemi UNIX per indicare un pacchetto di dati ricevuto da un programma e restituito intatto al sistema informatico che glielo aveva mandato.

La stessa idea fu adottata anche per Internet e in particolare per il Web: nel 1994, ossia trent’anni fa, i cookie furono usati per la prima volta da uno dei primissimi browser, Netscape, per sapere se un utente aveva già visitato il sito di Netscape in precedenza. Il cookie era, ed è tuttora, semplicemente un file che viene scritto sul computer dell’utente dal sito visitato da quell’utente e contiene delle informazioni che quel sito può leggere in un secondo momento. Per esempio, se un utente fa una serie di acquisti su un sito, il contenuto del carrello della spesa virtuale può essere salvato in un cookie, così se cade la connessione l’utente non deve ricominciare tutto da capo.

All’epoca, trent’anni fa, l’esistenza dei cookie era sconosciuta alla maggior parte degli utenti. I cookie erano solo una soluzione tecnica, per addetti ai lavori: una delle tante che venivano sviluppate in quel periodo frenetico di evoluzione di Internet. Ma un articolo del Financial Times [This bug in your PC is a smart cookie, 12/2/1996] ne parlò a febbraio del 1996, facendo notare le loro implicazioni di privacy e scatenando l’interesse dell’opinione pubblica.

Da quel debutto lontano i cookie hanno fatto molta strada, e sono diventati utilissimi per ricordare per esempio le preferenze di lingua o di aspetto di un sito, in modo da non doverle reimpostare ogni volta che si visita quel sito, ma sono anche diventati una delle forme di tracciamento più usate su Internet per la profilazione commerciale degli utenti. Quelle implicazioni di privacy accennate tre decenni fa si sono avverate, insomma, e oggi i grandi operatori commerciali e le agenzie pubblicitarie usano i cookie per pedinare virtualmente gli utenti e osservare i loro interessi di navigazione. Oltre il 90% dei siti web traccia gli utenti e raccoglie dati personali.

Il rischio di abuso era troppo alto, e così nel corso degli anni sono state emesse varie direttive europee sulla privacy digitale che hanno fatto scuola anche in buona parte del resto del mondo, come la direttiva ePrivacy del 2002 e in particolare il GDPR, entrato in vigore nel 2018. Ed è a questo punto che sono comparse in massa nei siti le finestre di richiesta di accettare i cookie.

Il GDPR, infatti, ha imposto ai siti di informare gli utenti del fatto che venivano tracciati e di come venivano tracciati tramite i cookie, e la finestra di richiesta (tecnicamente si chiama cookie notice) ha risolto quest’obbligo. Perlomeno dal punto di vista dei siti. Dal punto di vista degli utenti, invece, questa finestra incomprensibile, con i suoi discorsi su cookie tecnici, cookie di funzionalità, cookie di profilazione e pubblicità mirata”, è stata percepita principalmente come una scocciatura, anche perché alla fine per poter usare i siti era quasi sempre necessario accettare questi benedetti cookie e quindi c’era ben poca scelta concreta.

E così siamo diventati un po’ tutti bravi cliccatori automatici del pulsante “Accetta tutti, ma in sostanza non è cambiato nulla e continuiamo a essere profilati nelle nostre navigazioni.

Ricerca: il 65% dei siti web probabilmente ignora la richiesta di rifiuto dei cookie

L’articolo dei ricercatori del Politecnico di Zurigo, disponibile presso Usenix.org, spiega il metodo usato per documentare con i dati quello che molti utenti sospettano da tempo: i ricercatori hanno adoperato il machine learning, una particolare branca dell’intelligenza artificiale, per automatizzare il processo di interazione con queste richieste di cookie. Questo ha permesso di estendere la ricerca a ben 97.000 siti fra i più popolari, scelti fra quelli che si rivolgono principalmente a utenti dell’Unione Europea, includendo siti scritti in ben undici lingue dell’Unione.

Con questo approccio, i ricercatori hanno potuto inoltre includere vari tipi differenti di avviso per i cookie e hanno potuto distinguere addirittura i vari tipi di cookie richiesti, ossia fra quelli necessari per il funzionamento del sito (i cosiddetti cookie tecnici) e quelli usati dai pubblicitari per tracciare i visitatori del sito (i cosiddetti cookie di profilazione), e anche l’uso conforme o non conforme di questi cookie.

In pratica, il software sviluppato dai ricercatori ha interagito con gli avvisi per i cookie di questi siti nello stesso modo in cui lo avrebbe fatto una persona, ossia riconoscendone il testo e agendo di conseguenza, adattandosi alle singole situazioni, cliccando su “Accetto” o “Rifiuto” a seconda dei casi e acquisendo una copia dei cookie lasciati dal sito per verificare quali dati venivano acquisiti nonostante il rifiuto. Questo è il tipo di ricerca per il quale l’intelligenza artificiale risulta efficace e rende possibili studi che prima sarebbero stati impossibili o assurdamente costosi.

I risultati sono sconsolanti: oltre il 90% dei siti visitati con il software scritto dai ricercatori contiene almeno una violazione della privacy. Ci sono violazioni particolarmente vistose, come la mancanza totale di un avviso per i cookie nei siti che usano i cookie per la profilazione dei visitatori, che secondo i ricercatori si verifica in quasi un sito su tre, ossia il 32%.

Il 56,7% dei siti esaminati non ha un pulsante che consenta di rifiutare i cookie ma ha solo un pulsante per accettarli. I siti che hanno questo pulsante di rifiuto e fanno profilazione commerciale tramite cookie nonostante l’utente abbia rifiutato questa profilazione sono il 65,4%. Fra i siti che usano i cookie di profilazione, uno su quattro, ossia il 26%, non dichiara di farlo.

Un altro dato interessante che emerge da questa ricerca è che i siti più popolari sono quelli che hanno la maggior probabilità di offrire un avviso per i cookie e un pulsante per rifiutarli e che maggiormente dichiarano la profilazione degli utenti, ma sono anche i siti che tendono a ignorare il rifiuto degli utenti o a presumere un consenso implicito. In altre parole, dicono i ricercatori, “i siti popolari mantengono una facciata di conformità ma in realtà rastrellano più dati degli utenti di quanto facciano i siti meno popolari.”

Che si fa?

È facile pensare che a questo punto i ricercatori abbiano in sostanza stilato un enorme elenco di siti inadempienti da portare subito in tribunale o di fronte a un’autorità per la protezione dei dati, ma non è così. A differenza di molte altre ricerche condotte usando software di intelligenza artificiale, in questa viene messo molto in chiaro che una procedura automatica di questo tipo ha un rischio di falsi positivi troppo elevato, circa il 9%, e che quindi le segnalazioni fatte dall’intelligenza artificiale andrebbero controllate una per una. In altre parole, il metodo in generale funziona e permette di valutare la scala del problema, ma non è sufficientemente preciso da poter puntare automaticamente il dito sui singoli siti che non rispettano le norme.

Questo non vuol dire che tutta questa ricerca sia inutile all’atto pratico perché tanto non consente di intervenire. Anzi, lo scopo dei ricercatori è fornire per la prima volta uno strumento che finalmente consenta una “analisi su vasta scala, generale e automatizzata, della conformità degli avvisi per i cookie”, ben più ampia di tutti gli studi precedenti, e che permetta quindi una vigilanza maggiore di quella attuale, che è manuale, per identificare i violatori delle norme.

La vigilanza manuale ha già colpito parecchie volte. Per esempio, i ricercatori notano che l’agenzia francese per la protezione dei dati, il CNIL, ha multato Amazon per 35 milioni di dollari perché elaborava dati personali senza aver prima ottenuto il consenso dell’utente e segnalano anche che lo stesso CNIL ha multato Google e Facebook, rispettivamente per 150 milioni e 90 milioni di euro, perché non fornivano un pulsante di rifiuto ma solo quello di accettazione dei cookie e chiedevano agli utenti di andare nelle impostazioni per rifiutare i cookie.

Anche con i controlli puramente manuali, insomma, le sanzioni, arrivano, ma a quanto pare sono ancora moltissimi i siti che preferiscono rischiare le multe e sperano di farla franca perché le probabilità di essere scoperti sono scarse e un’eventuale multa viene messa in conto come semplice costo operativo. Ma questa tecnica proposta dei ricercatori potrebbe cambiare la situazione.

Staremo a vedere.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Stasera alle 19 su Youtube: paradosso di Fermi e le dichiarazioni di Elon Musk

15 de Abril de 2024, 10:29, por Il Disinformatico

Stasera alle 19 sarò ospite del canale YouTube di Tesla Owners Italia per parlare delle ultime dichiarazioni di Elon Musk, tra alieni, missioni su Marte e SpaceX: chi lo osanna e chi lo prende per pazzo. Una parte della puntata sarà dedicata alle tariffe delle ricariche impazzite. Cosa c’è dietro? Con me ci saranno Fabrizio Colista, ingegnere e divulgatore tecnico scientifico, Daniele Invernizzi e Pierpaolo Zampini. Coordina Luca Del Bo.

https://www.youtube.com/watch?v=PhKLDlQZwAA

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


È morto Giovanni Battista Judica Cordiglia. No, non aveva intercettato le voci di cosmonauti morti nello spazio prima di Gagarin

14 de Abril de 2024, 5:45, por Il Disinformatico

Andrea Ferrero su Mastodon segnala la scomparsa di uno dei protagonisti italiani del cospirazionismo spaziale: “È morto il tecnico elettronico Giovanni Battista Judica Cordiglia. Oggi molti giornali diranno che insieme al fratello Achille aveva intercettato le voci di cosmonauti morti nello spazio prima di Gagarin. Non è vero”.

https://mastodon.uno/@andrea_ferrero@sociale.network/112268577678233664

Per saperne di più, consiglio questo articolo del Cicap sulle false credenze spaziali:

https://www.cicap.org/n/articolo.php?id=1801027

e il libro Cosmonauti perduti di Luca Boschini:

https://www.cicap.org/new/prodotto.php?id=3859

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Biografie astronautiche oggi col 20% di sconto

12 de Abril de 2024, 12:46, por Il Disinformatico

Per festeggiare la Giornata internazionale del volo umano nello spazio, l’editore Cartabianca.com offre solo per oggi il 20% di sconto sulle autobiografie degli astronauti lunari Cernan, Young e Collins dando il codice spaceman.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Podcast RSI - Story: Deepfake fra plagio, abuso e autodifesa

12 de Abril de 2024, 3:33, por Il Disinformatico
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È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate qui sul sito della RSI (si apre in una finestra/scheda separata) e lo potete scaricare qui.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, Google Podcasts, Spotify e feed RSS.

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Deepfake. È la parola usata per indicare la tecnica informatica che permette di sostituire il volto di una persona con un altro, in foto e in video, usando l’intelligenza artificiale, in maniera molto realistica. Così realistica che, se il deepfake è fatto bene, la maggior parte delle persone non si accorge affatto che si tratta di un volto sostituito.

Per molti utenti, deepfake è sinonimo di molestia, di truffa, ma per altri invece è un’occasione di lavoro, di scoperta della propria personalità, e addirittura di protezione personale.

Benvenuti alla puntata del 12 aprile 2024 del Disinformatico, che stavolta racconta due casi molto differenti di applicazione di deepfake che spaziano dal plagio alla molestia fino all’autodifesa, e presenta le nuove regole di Meta per la pubblicazione di deepfake e immagini sintetiche in generale. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]

Influencer virtuali in crescita ma sotto attacco deepfake

Pochi mesi fa, a dicembre 2023, vi ho raccontato la mia esplorazione del fenomeno delle cosiddette influencer virtuali: persone che non esistono, le cui immagini e i cui video sono generati dall’intelligenza artificiale. Identità che sono pilotate da persone reali che scelgono le loro pose, il loro vestiario e le loro apparizioni sui social network.

Una delle più celebri influencer virtuali è la spagnola Aitana Lopez, gestita da un’agenzia di moda di Barcellona: oggi ha oltre 300.000 follower su Instagram (@fit_aitana) e fa guadagnare i suoi creatori tramite i contratti pubblicitari e la vendita di foto piccanti su piattaforme per adulti come Fanvue.

L’idea dell’influencer virtuale, quasi sempre al femminile (anche se c’è qualche raro, timido tentativo al maschile), piace molto al mercato: costa molto meno di una modella o di una influencer in carne e ossa, non si lamenta delle ore di lavoro o dei vestiti scomodi, non si stanca, non invecchia, non ingrassa e non ha spese di trasferta. Se una campagna pubblicitaria ha bisogno di un volto o di un corpo che attirino l’attenzione o semplicemente indossino un certo prodotto, può rivolgersi a questi personaggi sintetici a basso costo e alta efficienza. Nessuno del pubblico si accorgerà che si tratta di immagini generate dall’intelligenza artificiale.

Creare questi personaggi virtuali è abbastanza semplice: ero riuscito anch’io a creare un clone molto realistico di Aitana Lopez, con l’aiuto di una coppia di persone esperte di grafica digitale. La parte difficile è guadagnarci qualcosa, cercando sponsor o contratti pubblicitari e scansando le offerte truffaldine di una selva di sedicenti promotori che si fanno pagare promettendo di farti avere tanti follower (tutti falsi). Ho chiuso il mio esperimento senza rimetterci soldi, ma ho continuato a seguire gli sforzi di chi mi aveva aiutato e che ora comincia a vedere i primi guadagni. Qualche foto per la copertina di un CD o di una playlist di una band emergente, qualche illustrazione per piccoli eventi, qualche fotografia sexy venduta online, tanti contenuti pubblicati diligentemente tutti i giorni, e i follower, soprattutto su Instagram, alla fine arrivano, anche nel mercato di lingua italiana, al di qua e al di là della frontiera.

Profili sintetici come Francesca Giubelli (11.000 follower), Rebecca Galani (15.000 follower) o Ambrissima (37.000 follower) vengono intervistati virtualmente dai media generalisti come se fossero persone reali, e spostano opinioni e creano discussioni, anche su temi impegnativi come il clima o i diritti umani, proprio come se fossero persone reali. Non hanno i numeri dei grandi influencer reali, certo, ma in compenso costano molto meno e soprattutto non fanno gaffe e non causano imbarazzi ai loro sponsor con le loro vicende sentimentali. Aspettatevi, insomma, che nei prossimi mesi siano sempre più presenti e numerosi gli influencer virtuali le cui immagini sono generate con l’intelligenza artificiale.

Stanno nascendo anche le prime community di influencer virtuali in lingua italiana, come Aitalia.community, i cui membri si scambiano trucchi e consigli tecnici e di marketing e si sono dati un “manifesto etico” di trasparenza, che esige per esempio che i contenuti sintetici siano sempre dichiarati come tali (a differenza di alcuni settimanali blasonati che spacciano per autentiche delle foto talmente ritoccate da dare due piedi sinistri alle persone ritratte).

Al primo punto di questo manifesto c’è il divieto dei deepfake non consensuali. Moltissimi artisti digitali che creano e curano belle immagini di modelle e modelli virtuali si vedono infatti plagiare il lavoro da operatori senza scrupoli, che scaricano in massa le immagini prodotte da questi artisti, sostituiscono i volti dei loro personaggi usando la tecnica del deepfake, senza permesso e senza compenso, e così riusano a scrocco la fatica altrui ripubblicandola sui propri profili social, che spesso hanno un seguito maggiore di quello degli artisti originali.

È un nuovo tipo di pirateria dei contenuti, ed è un problema che tocca anche le modelle e i modelli in carne e ossa. Nelle varie piattaforme social, infatti, abbondano i profili che hanno centinaia di migliaia di follower, con i relativi guadagni, ottenuti pubblicando le foto o i reel, ossia i video, di persone reali, quasi sempre donne, e sostituendone i volti per spacciarli per immagini create da loro. Lo segnala per esempio un articolo su 404media, facendo nomi e cognomi di questi sfruttatori della fatica altrui.

Molti creatori di contenuti si stanno difendendo usando il watermarking, ossia la sovrimpressione di scritte semitrasparenti per identificare l’autore originale dell’immagine sintetica o reale, ma i software di intelligenza artificiale riescono spesso a cancellare queste sovrimpressioni.

Se state pensando di fare l’influencer virtuale o reale perché vi sembra un lavoro facile, o di promuovere la vostra arte online, mettete in conto anche il rischio della pirateria. E se pensavate che fare la modella o il modello fosse uno dei pochi lavori non influenzati dall’intelligenza artificiale, devo darvi una delusione: a parte forse marmisti e pizzaioli, non si salva nessuno.

Salva dallo stalking grazie al deepfake: Sika Moon

Dalla Germania arriva un caso molto particolare di uso positivo della tecnica del deepfake, segnalato in un’intervista pubblicata da Die Tageszeitung e dedicata a una giovane donna che si fa chiamare Sika Moon e pubblica e vende online le proprie foto e i propri video per adulti. Questo è il suo lavoro a tempo pieno, e le sue attività sulle varie piattaforme social sono seguite in media da circa 4 milioni di persone al mese, dandole guadagni mensili che lei definisce “stabilmente a cinque cifre”.

Anche il suo lavoro è stato toccato dall’intelligenza artificiale. Per cinque anni ha lavorato pubblicando sulla piattaforma Onlyfans, mostrando il suo vero volto, ma delle esperienze di stalking che definisce “terribili” l’hanno costretta a proteggersi ricorrendo all’anonimato, ottenuto in questo caso facendo un deepfake a se stessa. Il viso della donna in questione, infatti, nelle foto e nei video è generato con l’intelligenza artificiale, ed è differente dal suo, ma è talmente realistico che pochi si accorgono della manipolazione. Ora ha cambiato piattaforma, perché Onlyfans rifiuta i contenuti generati sinteticamente.

Questo deepfake, insomma, le ha permesso di evitare che il suo lavoro fosse sabotato dagli stalker e le consente di proseguire la propria attività in sicurezza. È un tipo di uso positivo di questa tecnologia che non riguarda solo chi vuole proteggersi da persone pericolosamente invadenti ma vale anche, per esempio, per chi vive in un ambiente in cui è considerato reato, tipicamente solo per le donne, mostrare il proprio volto oppure è comunque necessario coprirlo o mascherarlo per non farsi identificare, per provare in sicurezza esperienze altrimenti impossibili. Un deepfake, insomma, è una maschera che però lascia passare tutta l’espressività di un viso.

Inoltre, sempre grazie all’intelligenza artificiale, Sika Moon può comunicare con i propri fan direttamente nella loro lingua. Ha infatti fatto clonare la propria voce e quindi può ora inviare messaggi vocali ai suoi follower parlando ogni volta nella loro rispettiva lingua.

Nell’intervista, Sika Moon segnala inoltre un altro fenomeno interessante che riguarda le immagini generate dall’intelligenza artificiale: in molte culture l’idea stessa che una fotografia di una persona possa essere creata sinteticamente è inconcepibile o fa molta fatica a essere accettata. In fin dei conti, una foto è una foto, un disegno è un disegno. Solo il computer permette di creare in grandi quantità disegni che sembrano fotografie. “La gente in India, nei paesi africani e in quelli arabi di solito non lo capisce affatto”, spiega Sika Moon, nonostante il suo profilo dichiari chiaramente che molte sue immagini sono completamente generate dall’intelligenza artificiale. E quello che dice corrisponde anche alla mia esperienza nel seguire le attività di altre persone che fanno lo stesso lavoro di Sika Moon appoggiandosi all’informatica per le proprie immagini.

Tutto questo sembra indicare che l’impatto culturale dell'IA sarà differente nei vari paesi del mondo. In quelli tecnologizzati verrà probabilmente attutito dalla familiarità con la tecnologia, ma in altri sarà molto più destabilizzante. Forse sarebbe opportuno tenerne conto, per non creare una nuova forma di inquinamento digitale da esportare.

Nuove regole di Meta per i contenuti sintetici

La stragrande maggioranza delle foto, dei video e degli audio generati dall’intelligenza artificiale circola sui social network ed è lì che ha il maggiore impatto. Ma allora perché i social network non fanno qualcosa per impedire la diffusione di fake news, inganni e manipolazioni che usano l’intelligenza artificiale?

La risposta a questa domanda è che in realtà i social fanno qualcosa, ma quello che fanno è inadeguato, perché la tecnologia si evolve talmente in fretta che le regole scritte per esempio dal gruppo Meta per uniformare la gestione dei contenuti sintetici da parte di Facebook, Instagram e Threads risalgono a soli quattro anni fa ma sono completamente obsolete. Nel 2020 i contenuti realistici generati dall’intelligenza artificiale erano rarissimi e si temeva soprattutto la manipolazione dei video. Da allora, invece, sono emerse le immagini sintetiche realistiche producibili in massa e anche i contenuti audio falsi e creati artificialmente.

E così Meta ha presentato le sue nuove regole con un comunicato stampa il 5 aprile scorso: prossimamente smetterà di censurare direttamente i contenuti “innocui” generati dall’intelligenza artificiale e a partire da maggio applicherà un’etichetta di avviso a una gamma più vasta di contenuti video, audio e di immagini se rileverà che sono stati creati o manipolati adoperando l’intelligenza artificiale o se chi li pubblica li indicherà spontaneamente come generati usando questa soluzione.

Mentre finora le regole bandivano soltanto i video realizzati o alterati con l’intelligenza artificiale che facevano sembrare che una persona avesse detto qualcosa che non aveva detto, ora verranno etichettati anche i video modificati per attribuire a una persona un comportamento o un gesto che non ha commesso. Da luglio, inoltre, Meta smetterà di censurare i contenuti generati che non violano le regole su argomenti come le interferenze elettorali, il bullismo, le molestie, la violenza e l’istigazione. In sostanza, ci saranno meno rimozioni e più etichettature di avvertimento.

Tuttavia c’è il problema che al momento attuale Meta si affida agli indicatori standard per riconoscere le immagini sintetiche. Molti software per la generazione di immagini, come quelli di Google, OpenAI, Microsoft, Adobe, Midjourney e Shutterstock, includono nelle proprie immagini un indicatore visibile o rilevabile digitalmente, una sorta di bollino che le marca come sintetiche, e Meta usa solo questo indicatore per sapere se un’immagine è alterata oppure no; non fa nessun altro controllo. Di conseguenza, un creatore ostile può quindi generare immagini o video senza indicatori, o togliere questi indicatori da contenuti esistenti, che non verranno riconosciuti ed etichettati da Meta come sintetici.

Per colmare almeno in parte questa lacuna, Meta offrirà agli utenti la possibilità di etichettare volontariamente i contenuti generati con l’intelligenza artificiale e applicherà penalità a chi non usa questa etichettatura. Ma è chiaro che chi vuole ingannare o disseminare disinformazione non aderirà certo a questo volontariato e potrà farla franca anche con le nuove regole. Come al solito, insomma, i social network fanno troppo poco, troppo tardi.

Fonte aggiuntiva: Ars Technica.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


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