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Disinformatico

September 4, 2012 21:00 , von profy Giac ;-) - | No one following this article yet.
Blog di "Il Disinformatico"

Patrick Stewart torna a Star Trek

August 5, 2018 5:09, von Il Disinformatico

Ho pensato a un pesce d’aprile quando l’ho letto inizialmente, ma l’annuncio è ufficiale: Patrick Stewart, memorabile interprete del Capitano Jean-Luc Picard in Star Trek: The Next Generation e in vari film di Star Trek, riprenderà lo stesso ruolo in una nuova serie.

Questo è uno spezzone dell’annuncio, totalmente a sorpresa, fatto da Stewart stesso poche ore fa a una convention di Star Trek a Las Vegas.

BREAKING: @SirPatStew is BACK AS Picard. pic.twitter.com/BIyCeb4qk4
— Chase Masterson (@ChaseMasterson) August 4, 2018



Questo è l’annuncio di Variety:

Author Michael Chabon is a producer on the newly announced Capt. Picard #StarTrek series https://t.co/MPhmrxbcO7 pic.twitter.com/SYxhIkvs9c
— Variety (@Variety) August 4, 2018



Un altro annuncio, con foto della gran forma di Stewart, che pare aver fatto un patto col diavolo, o perlomeno con Q:

WOW!!!! #PatrickStewart “JEAN-LUC PICARD IS BACK! He may not be a Captain anymore, he may be a very different individual. New show will take place 20 years after #StarTrek The Next Generation! @SirPatStew pic.twitter.com/JU0k7WCID5
— Scott Mantz (@MovieMantz) August 4, 2018



Ed ecco la dichiarazione formale di Patrick Stewart:

It is an unexpected but delightful surprise to find myself excited and invigorated to be returning to Jean-Luc Picard and to explore new dimensions within him. Read my full statement in the photo. #StarTrek @cbsallaccess Photo: @shervinfoto pic.twitter.com/8Ynuj3RBNm
— Patrick Stewart (@SirPatStew) August 4, 2018


Traduco:

“Sarò sempre molto orgoglioso di aver fatto parte di Star Trek: The Next Generation, ma quando terminammo le riprese di quel film finale a primavera del 2002, pensai sinceramente che il mio periodo con Star Trek fosse giunto alla sua conclusione naturale. Ê quindi una sorpresa inattesa ma incantevole scoprirmi emozionato e rinvigorito all’idea di tornare a Jean-Luc Picard e ad esplorare nuove dimensioni dentro di lui. Alla ricerca di nuova vita per lui quando pensavo che quella vita fosse finita.

In questi anni trascorsi, ho provato grande umiltà nel sentire i racconti di come The Next Generation ha dato conforto alle persone, le ha aiutate in momenti difficili delle proprie vite o di come l’esempio di Jean-Luc ha ispirato così tanti a seguire le sue orme e intraprendere la scienza, l’esplorazione e ruoli di guida. Sento di essere pronto a tornare da lui per lo stesso motivo: per cercare e vivere qualunque luce confortante e riformatrice possa proiettare su questi tempi spesso molto cupi. Non vedo l’ora di lavorare con la nostra squadra creativa geniale mentre ci sforziamo di portare di nuovo alla vita una storia originale, inattesa e pertinente.

Patrick”


Mi sono reso conto solo ora di aver previsto il futuro con questo tweet del 16 luglio scorso. Mi candiderò al Premio Randi.

I costumi per la nuova serie di Star Trek con Patrick Stewart lasciano un po' a desiderare. https://t.co/n9tqY1qocm
— Paolo Attivissimo (@disinformatico) 16 luglio 2018



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Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.



Chi ha paura di Momo? Come il giornalismo crea le psicosi

August 5, 2018 4:18, von Il Disinformatico

Ultimo aggiornamento: 2018/08/05 9:10.

Niente paura: quella nella foto è solo una scultura moderna. Non ha poteri magici: è una bufala. Se la ricevete sullo smartphone, cestinatela pure.

C’è una catena di Sant’Antonio che circola principalmente su WhatsApp e che sta scatenando paura in molti utenti, soprattutto giovanissimi: si basa sulla foto che vedete qui accanto e dice di chiamarsi Momo.

Secondo quello che afferma la catena, chi la riceve deve rispondere mandando immagini horror, altrimenti continuerà a essere bersagliato da quest’immagine impressionante.

Ma niente panico! Non ci sono virus o molestatori dietro questa storia. Momo è semplicemente il nomignolo dato a una scultura creata da una società giapponese di effetti speciali, la Link Factory.

L’origine della catena, spiega Know Your Meme, è un utente Instagram, nanaakooo, che il 25 agosto 2016 aveva postato una versione più ampia della foto: è esplosa quando il 10 luglio scorso è stata pubblicata su Reddit (/r/creepy) una versione tagliata della foto della scultura, che ha ricevuto moltissimi voti positivi e commenti, e da lì è partita inarrestabile grazie agli utenti che credono a qualunque cosa vedano.

Questa è la scultura completa:


Altre info sulle origini della scultura sono su Delucats (in cinese).


2018/08/05 9:10 - Momo rischia di diventare il nuovo Blue Whale grazie ai giornalisti affamati di clic


Il giornalismo irresponsabile che vive pensando soltanto a quanti clic farà un articolo e se ne strafrega di concetti come “verità”, “verifica” o “fatti” sta gonfiando il meme di Momo per cercare di farlo diventare il successore della psicosi per il Blue Whale Challenge. Non aiutatelo: non diffondete Momo e le stupidaggini che lo circondano. Cestinatelo e basta.

Dagospia offre un perfetto esempio di questo giornalismo spazzatura: “LA PAURA CORRE SU WHATSAPP – UNA NUOVA PREOCCUPANTE SFIDA IN STILE “BLUE WHALE” DILAGA TRA I GIOVANI”, dice nel tweet, scritto tutto in maiuscolo così è più drammatico. Ma nell’articolo (link intenzionalmente alterato) salta fuori che il “dilagare” è in realtà un singolo caso non confermato: “si ipotizza che possa essere collegata al suicidio di una ragazzina in Argentina che si sarebbe tolta la vita”.

Anche l’emittente TV statunitense CBS47 ne parla, citando un articolo basato sul vuoto pneumatico.

Ne parla anche Il Giornale (link intenzionalmente alterato, grazie a @martacagnola per la segnalazione), basandosi esclusivamente sull’“articolo”
di Dagospia.

Stessa fame disperata di psicosi su Il Messaggero (link intenzionalmente alterato), basata sempre sulla stessa singola storia non confermata.

Tranquilli: Momo è e resta una bufala. Ditelo agli amici e ai figli e liquidate questi tentativi giornalistici di creare psicosi ridendoci sopra.
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Avventurette in auto elettrica: trucchi per un viaggio “lungo”, con carico extra e arrampicata

August 2, 2018 17:59, von Il Disinformatico

Come molti di voi sanno, ho una piccola auto elettrica di seconda mano, una Peugeot iOn, che uso con molto piacere per tutti gli spostamenti in città e a corto raggio, dove posso usare aria condizionata o riscaldamento a volontà e accelerare senza ritegno (stando nei limiti di velocità). È assolutamente una city car, ma ogni tanto mi diverto a portarla ai limiti delle sue prestazioni.

Stavolta la sfida sarà fare nei prossimi giorni, con un’auto che ha circa 90 km di autonomia reale, un tragitto di 150 km fra andata e ritorno, con due persone (io e la Dama del Maniero), 50 chili di carico a bordo all’andata e una salita fino a quota 1200 metri per arrivare alla destinazione, dove oltretutto non c’è nessuna presa elettrica utilizzabile: è un rustico alimentato da un piccolo pannello fotovoltaico da 250 W dove la Dama e io staremo per la giornata con degli amici. Sì, persino io riesco ogni tanto ad andare offline e off-grid.

Potremmo farlo agevolmente con la mia auto a benzina, ma perché inquinare e rinunciare a una piccola avventura? Oltretutto, visto che la destinazione è in mezzo al verde (sui Monti di Tizzerascia, se volete saperlo), arrivarci senza puzze e rumori ci sta bene.

E poi devo ammettere che per me la pianificazione di queste avventurette fa parte del divertimento elettrico: è come pensare a un viaggio in aereo di linea, confortevole ed efficiente ma noioso, e poi dirsi “Certo che farlo in aliante sarebbe più divertente...” e sorridere. Questione di gusti: se non fa per voi, non leggete oltre.

---

Siete ancora qui? Bene. Allora vi racconto il problema di questa sfida: non è arrivare a destinazione, ma tornare al Maniero Digitale. So per esperienza che ELSA, la mia auto elettrica, è in grado di coprire quei 75 km nonostante la salita del Monte Ceneri a metà strada, il carico extra e l’arrampicata finale di circa 1000 metri (il fondovalle è a circa 200 m di altitudine), e ormai non mi angoscia più fare viaggi con margini di 15 km di autonomia stimata (ELSA ha un piccolo margine di autonomia di emergenza, circa 10 km in “modalità tartaruga”, che ho usato una sola volta in tutti questi mesi; sul cruscotto si accende un’icona a forma di tartaruga). Però una volta arrivato al rifugio devo trovare il modo di ricaricare per tornare a casa.

In basso verso destra, l’icona circolare gialla
della “modalità tartaruga”. Fonte: KiwiEV.com.


Certo, al ritorno la Dama e io saremo in discesa e quindi la frenata elettromagnetica caricherà un po’ la batteria di ELSA, ma non so quanto: scoprirlo è uno dei motivi di quest’avventuretta. Di certo non la caricherà a sufficienza da fare 75 km fino al Maniero.

Soluzione: una ricarica rapida durante l’andata, per arrivare a destinazione con più autonomia residua, e una al ritorno. Lungo il percorso d’andata, sull’autostrada A2, c’è una colonnina GOFAST con connettore CHAdeMO (quello usato da ELSA per le ricariche rapide). Sta a 32 km dal Maniero e la potrò prenotare, per cui ci potrò arrivare comodamente e fermarmici per fare un rabbocco di circa un quarto d’ora (ammazzerò il tempo moderando i commenti del blog e facendo un po’ di lavoro; offline, ma solo fino a un certo punto).

Però questa carica rapida porterà la batteria all’80%, non al “pieno”. Infatti le auto elettriche sono come i bicchieri di vino: puoi riempirli rapidamente all’inizio, ma se vuoi colmarli devi versare molto lentamente verso la fine. Il che significa che avremo, a questo punto, circa 72 km di autonomia. Per arrivare a destinazione al rustico ci resteranno 43 km: ci arriveremo quindi comodamente, con circa 29 km di autonomia residua.

Quei 29 km di autonomia non ci basteranno per andare dal rustico alla colonnina rapida GOFAST che c’è sulla via del ritorno e fare 20 minuti di ricarica per poi tornare a casa. La colonnina, infatti, sta a 39 km di distanza. Certo, la discesa ci darà un pochino di autonomia in più, ma è improbabile che ci dia ben 10 km aggiuntivi. È un bel rischio, ma se 1000 m di discesa ci dovessero ridare 10 km di autonomia (2 kWh), questo è il Piano A. A naso, dubito che funzionerà. Per questo c’è un Piano B.

Il Piano B prevede che se vediamo che l’autonomia ottenuta dalla discesa non basta per arrivare alla colonnina rapida, possiamo fermarci alla colonnina di ricarica lenta Emotì di Malvaglia, che sta a 15 km dal rustico, e fare un lentissimo rabbocco che ci consenta di raggiungere la colonnina rapida. La lentezza non è colpa della colonnina; è ELSA che carica lentamente, a circa 15 km/h (ossia 15 km di autonomia per ogni ora di carica), sul connettore Tipo 1, l’unico offerto dalla colonnina Emotì che sia compatibile con la mia auto. Un’oretta di sosta è lunga, ma è sempre meglio che restare a piedi.

C’è anche un Piano C, perché bisogna sempre avere un piano B e magari anche un piano C, quando si va in auto elettrica, finché l’autonomia sarà modesta rispetto al tragitto e le colonnine di ricarica rapida saranno così rade. Se per caso la colonnina di ricarica rapida all’andata è guasta, occupata o irraggiungibile per qualunque motivo, il Piano C consiste nell’andare direttamente da casa fino alla colonnina lenta di Malvaglia (60 km), lasciare l‘auto sotto carica per circa 4 ore (meno del tempo che trascorreremo al rustico) e farci venire a prendere e riportare dagli amici che stanno già alla destinazione. Con il “pieno”, poi, torneremmo direttamente a casa. Non è un granché, ma eviterebbe completamente le due soste intermedie (40 minuti in tutto).

Insomma, non è facile e ci vuole un certo spirito d’avventura. Ma ho tre trucchi a mia disposizione per aumentare l’autonomia: contenere la velocità, verificare la pressione delle gomme e “hackerare” ELSA.


Velocità


Ridurre anche leggermente la velocità ha effetti notevolissimi sul consumo di energia: in un‘auto a pistoni la differenza si nota poco, ma quando si ha poca autonomia, come nel mio caso, si nota tantissimo. La resistenza aerodinamica, infatti, aumenta con il quadrato della velocità, quindi anche 10 km/h di velocità in meno possono fare molta differenza sui consumi e sorprendentemente poca sui tempi di percorrenza.

Per esempio, una Tesla Model S 85 ha un’autonomia di 640 km a 60 km/h, di 482 km a 90 km/h e di 370 km a 120 km/h (presumendo, ipoteticamente, una velocità costante).



Allo stesso tempo, per fare 100 km a 100 km/h di media ci vuole ovviamente un’ora, ma per farli a 90 km/h ci vogliono solo sette minuti in più. 100 km a 130 km/h sono 46 minuti; a 120 sono 50 minuti (4 in più, il tempo di una canzone alla radio).

Questo significa, per esempio, che un conducente Tesla che deve fare 400 km può:

a) percorrere i primi 370 a 120 km/h, mettendoci 185 minuti, per poi doversi fermare qualche decina di minuti per caricare e poi coprire gli ultimi 30 km in 15 minuti andando a 120 km/h: totale 200 minuti di guida più il tempo della ricarica.

b) percorrere tutti e 400 i km a 105 km/h senza ricaricare, mettendoci 230 minuti.

Se la sosta di ricarica del caso a) dura più di 30 minuti, insomma, chi corre più veloce arriva più tardi. Guidare auto elettriche è un’arte che combina fisica e matematica, come navigare a vela: o piace, o è meglio prendersi un motoscafo.

Come regola generale, insomma, è piuttosto stupido correre per poi doversi fermare decine di minuti a caricare. Farò quindi l’esperimento di viaggiare al massimo a 100 km/h anche dove il limite sarebbe di 120 km/h.

Morale della storia: superare il limite di velocità di 10 km/h “per arrivare prima e rischiare la multa ma non troppo”, come fanno in tanti, non ha nessun senso, e questo vale sia per le auto elettriche, sia per quelle a pistoni. Usare un’elettrica fa risaltare cose come questa.


Pressione


La pressione ottimale delle gomme è importantissima in un’auto che deve consumare poco (elettrica o a pistoni che sia): la resistenza al rotolamento prodotta dagli pneumatici incide parecchio sull’autonomia, e questa resistenza aumenta al diminuire della rigidità dello pneumatico. Questa rigidità, a parità di pneumatico, diminuisce al diminuire della pressione. In altre parole, gomme sgonfie consumano di più.

Partire dopo aver controllato che le gomme non siano sgonfie è quindi una buona regola anche per questioni di risparmio energetico oltre che di sicurezza (Pirelli; Nokian; EVObsession).


Hackerare?


Per “hackerare” intendo “sbloccare le due modalità nascoste di frenata rigenerativa”.

La frenata rigenerativa è la caratteristica delle auto elettriche o ibride che consente di usare il “freno motore” (ossia il motore diventa una sorta di dinamo) per ricaricare la batteria mentre si viaggia, invece di frenare con i freni tradizionali e buttar via energia cinetica e polveri fini di pastiglie (inquinanti).

ELSA è una Peugeot iOn, che come la Citroen C-Zero è una Mitsubishi i-Miev rimarchiata, con interni differenti e -- sentite questa -- con una semplice mascherina di plastica che blocca la corsa del selettore (la “leva del cambio”) in modo che non possano essere selezionate le modalità B e C di frenata rigenerativa, come spiegato in questo video da 1:49 in poi, in questo articolo (copia su Archive.is), in quest’altro e in queste foto.

Per i nostalgici dell’informatica, è come se scopriste che il vostro PC ha un selettore Turbo, ma è coperto da un tappo di plastica incollato.


Sostituendo semplicemente la mascherina con la versione Mitsubishi (part number 2420A081XB) e facendo un pochino di, ehm, chirurgia plastica, le due modalità tornano disponibili anche sulla iOn.

La modalità B offre il recupero energetico massimo, mentre la modalità C ne offre uno ridotto rispetto a quello predefinito (che è il D). Se avrò tempo prima di questo viaggetto, proverò anche questa modifica, in modo da massimizzare il recupero di carica su quel dislivello di mille metri.

È importante notare che su queste auto (iOn/Miev/C-Zero) le luci di stop non si accendono quando si usa la frenata rigenerativa, per cui è sconsigliabile usare la modalità B (frenata rigenerativa drastica) se si ha dietro un’altra auto che segue da vicino: potrebbe non accorgersi che state rallentando e quindi tamponarvi. In questo caso, una leggera pressione sul pedale del freno fa accendere gli stop.


Non dimentichiamo i costi


Oltre al silenzio di marcia e alla riduzione dell’inquinamento, vale la pena di considerare anche i costi, sui quali tornerò in dettaglio in un prossimo articolo: se facessi questo viaggio a benzina (con la mia Opel Mokka), spenderei circa 16,5 franchi di carburante; facendolo in auto elettrica, spenderò 2,3 CHF per il “pieno” fatto al Maniero prima di partire (tariffa notturna) più qualche franco per le due o tre ricariche fatte in viaggio. Se avessi un’elettrica a lunga autonomia, spenderei in tutto 4,4 franchi, perché non dovrei caricare alle colonnine e mi basterebbe il “pieno” fatto alle tariffe domestiche: spenderei insomma circa un quarto di quello che mi costerebbe andando a benzina.

Funzionerà? Resterò appiedato a metà salita o fra una colonnina e l’altra? Lo saprete nella prossima puntata.


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Marcello Foa e l’attentatore “quasi cieco” di Charlie Hebdo

July 29, 2018 20:21, von Il Disinformatico

Poco fa ho visto questo tweet di Massimo Mantellini che cita inquietato un articolo di Marcello Foa e mi sono incuriosito:

Cercavo di essere laico e di applicare il beneficio del dubbio ma devo ammettere che il numero di cose pericolose che Marcello Foa ha sparso in rete in questi anni è davvero considerevole. Questa, dolorosa, su Charlie Hebdo, è solo l’ultima che ho letto. https://t.co/s5NlefmWSl
— massimo mantellini (@mante) July 29, 2018


L’articolo di Foa citato e linkato da Mantellini si intitola Charlie Hebdo, uno dei killer era quasi cieco. E non è uno scherzo. Lo trovate qui in originale (link alterato intenzionalmente) e qui come copia d’archivio.

Nel suo articolo, Foa cita un articolo del settimanale francese L’Obs dedicato all’attentato terroristico a Charlie Hebdo e ne riporta un estratto, dal quale parte per suggerire che ci sia qualcosa che non quadra nella ricostruzione dei fatti.

Foa riporta infatti che secondo L’Obs uno degli attentatori, Said Kouachi, ha “una malattia degli occhi“ che “gli impedisce di superare l’esame di guida: senza occhiali, non vede niente a meno di un metro.”

Dice Foa: “L’uomo mascherato che abbiamo visto sparare all’impazzata nelle vie attorno a Charlie Hebdo, urlando “Siamo di Al Qaida e veniamo dallo Yemen”, che ha giustiziato il poliziotto a terra o comunque si è mosso con estrema agilità a supporto del fratello, il terrorista che con straordinaria precisione e freddezza ha ammazzato una dozzina di persone nella redazione, era un uomo sedentario, straordinariamente impacciato, diciamola tutta, un imbranato, e soprattutto era quasi orbo, al punto che le autorità francesi gli negarono la patente anche con l’ausilio degli occhiali. Non vedeva una mazza, ma ha dimostrato di essere un cecchino infallibile. Com’è possibile?”

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Ho cominciato con un po’ di verifica e reperimento dei fatti di base: Foa cita il titolo di copertina dell’edizione del settimanale, traducendolo come “Rivelazioni, come hanno preparato gli attentati”, ma non cita l’originale. Ho provato a ritradurre in francese questo titolo e ho trovato online l’edizione in questione: è quella del 26 febbraio 2015. Il titolo di copertina originale è "Révélations: Comment ils ont préparé les attentats".


Ho trovato inoltre un articolo di Butac che si era occupato della vicenda, notando correttamente che è strano che un dettaglio così importante e apparentemente contraddittorio non sia stato riportato da nessun’altra fonte giornalistica. Ma Butac era poi arrivato a un punto morto per l’impossibilità di reperire l’originale e quindi verificare la correttezza e il contesto della citazione e della traduzione di Foa.

Butac ha notato che “Foa ci riporta le parole che dice di aver trovato su l’Obs, tristemente senza link e testo originale diventa difficile per noi andare a vedere cosa abbiano scritto realmente, dove l’abbiano fatto e chi l’abbia fatto”.

In effetti una citazione del testo originale o una foto del brano citato non sarebbe costata nulla, ma Foa non l’ha fornita.

Un commentatore di Butac ha poi trovato una possibile fonte (oggi scomparsa, ma recuperabile su Archive.org). Tuttavia si tratta di un blog de L’Obs, non di un articolo della rivista, e questi blog sono “spazi concessi da L'OBS come i blog antivaccinisti sul fatto Quotidiano e quelli pro hamer e medicina germanica sul Giornale”, ha notato Butac, per cui non si tratta di una fonte giornalistica vera e propria.

Però questo blog scomparso, recuperato tramite Archive.org, mi ha fornito finalmente la citazione testuale originale che manca nell’articolo di Foa. Il Web è fatto apposta per linkare e incorporare contenuti; sarebbe buona cosa approfittarne.

Ecco uno screenshot del blog non più esistente:


Da questo blog estraggo la frase originale francese attribuita ai giornalisti de L’Obs: “Une maladie des yeux l'empêche de passer son permis de conduire : sans lunettes, à moins d'un mètre, il ne voit rien !”.

Questa frase, immessa tra virgolette in Google, mi ha portato finalmente a una copia digitale dell’articolo originale, dal quale finalmente è emersa la frase originale citata solo in traduzione da Foa:

A Reims, les journées s’étirent en longueur pour Saïd Kouachi. Le frère aîné de Chérif, 34 ans, ne travaille pas. Ne bricole pas. "Il ne sait pas visser une vis", témoigne un de ses beaux-frères, qui ne se souvient pas d’avoir eu une seule fois une vraie discussion avec lui. D’ailleurs, on ne lui connaît pas d’ami. Le futur tueur de "Charlie Hebdo" se déplace peu. Une maladie des yeux l’empêche de passer son permis de conduire : sans lunettes, à moins d’un mètre, il ne voit rien ! La journée, il prie, va à la mosquée, s’occupe de son fils et de sa femme, handicapée.

Un po’ di ricerca approfondita nei bassifondi della Rete mi ha permesso di recuperare una scansione della pagina in questione de L’Obs: il brano in questione è in basso a sinistra.




Per quel che mi consente il mio francese arrugginito, la traduzione di Foa in sé mi pare abbastanza corretta (francofoni che mi leggete, ditemi se c'è qualcosa che non va e che non ho notato).

Ma bisogna tenere presente che “non vede niente a meno di un metro” (se è questa la traduzione giusta) non è lo stesso che “quasi cieco” e non ci dice nulla sulle capacità visive dell'attentatore a distanze maggiori: in pratica, Saïd Kouachi parrebbe presbite e quindi in grado di vedere bene a oltre un metro, ossia alle distanze alle quali presumibilmente opera la vista durante un attentato. Visto che comunque porta gli occhiali, proprio cieco non è. Questo spiegherebbe il fatto che nessun altro giornale ha riportato questo fatto o sollevato perplessità: non era un dettaglio rilevante.

Le asserzioni “uomo sedentario, straordinariamente impacciato, diciamola tutta, un imbranato [...] quasi orbo [...] [N]on vedeva una mazza” sono però esagerazioni e distorsioni infondate, create da Foa. Insieme al titolo che afferma che l’attentatore sarebbe stato “quasi cieco” si crea sospetto dove non c’è in realtà motivo ragionevole di averne.

Purtroppo Marcello Foa ha lanciato la sassata, ha sollevato il dubbio, ma in questo caso non ha svolto quello che a mio avviso è il vero compito del giornalista: non limitarsi a insinuare dubbi che lascia irrisolti, ma investigare fino a chiarirseli.


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Per chi mi chiede di lavorare gratis

July 29, 2018 4:20, von Il Disinformatico

Ogni tanto su Twitter arrivano i soliti diversamente intelligenti che esigono che io faccia un’indagine antibufala su qualche argomento, di solito di politica o economia italiana, che a loro sta disperatamente a cuore.

Partono subito lancia in resta lamentandosi che io non abbia già indagato e mi accusano di essere di parte, o al soldo dei poteri forti, perché non ho fatto spontaneamente quell’indagine.

A questi instancabili reclamatori del lavoro altrui rispondo sempre così: No. Non funziona così. Tu pagare me, io fare quello che volere tu. Tu no pagare me, io fare quello che volere io. Parole semplici, sintassi elementare, per venire incontro alle capacità mentali del leone da tastiera del giorno.

Quello che a quanto pare non è chiaro a molti di questi guerrieri dei social è che il debunking per me è sempre stata una passione, non un lavoro retribuito. Sono rarissimi i casi in cui qualcuno mi ha commissionato un’indagine pagandomela.

Faccio debunking perché mi piace, mi intriga, mi appassiona scoprire come stanno i fatti, perché mi piace scrivere e raccontare quello che ho scoperto, e perché credo che sia un dovere civico, per chi come me ha la fortuna di avere la passione e le risorse necessarie, condividere pubblicamente i risultati di queste indagini e magari aiutare qualcuno. Tutto qui.

Di conseguenza, siccome non mi paga nessuno, decido io quello che mi va di indagare e lo faccio se e quando ho tempo di farlo. Non chiedetemi di indagare su argomenti pallosissimi come le teorie economiche di Bagnai, il signoraggio o il “piano Kalergi”: non lo farò, appunto perché sono di una noia mortale e sono una particolare forma di onanismo mentale nella quale non ho alcuna intenzione di investire il mio poco tempo libero. Non insistete. No. Grazie. No. Davvero. No.

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Scrivo questo post perché così potrò linkarlo la prossima volta che arriva l’ennesimo condottiero delle mosche e perché ieri ho ricevuto una richiesta di questo genere un po’ diversa. Da una nota emittente radiofonica nazionale italiana mi è arrivata questa mail. Ho asteriscato le parti più imbarazzanti.

Buongiorno Paolo,
sono ***, giornalista di ***.
Da settembre partirà il nostro magazine quotidiano del mattino in una versione rinnovata, all’interno della quale pensavo di inserire delle finestre sul mondo del web.
Ti andrebbe di regalarci un tuo intervento a settimana sull’argomento?

Fammi sapere se la cosa può interessarti

Buona giornata
****


Ho risposto così:

Ciao ***,

grazie dell'invito, ma cosa intendi per "regalarci"? Senza compenso?


Ciao,

Paolo


Dalla Nota Emittente Radiofonica mi è arrivata prontamente la laconica conferma del mio dubbio:

Purtroppo si.


Ho risposto come segue, e intendo rispondere allo stesso modo a qualunque altra azienda a scopo di lucro che mi chieda di lavorare gratis, ”per la visibilità”:

Ciao ****,

purtroppo nonostante lo stipendio che mi passa la CIA per screditare i complottisti e anche tenendo conto dei finanziamenti occulti che mi arrivano dai Rettiliani, non posso ancora permettermi di regalare il mio lavoro: le rate del leasing sul mio aereo per spargere scie chimiche sono alte e il prezzo del carburante va sempre più su. Non hai idea di quanto costino oggi gli additivi per il controllo mentale.

Ho provato a chiedere al mio idraulico di lavorare senza compenso, ma non ha apprezzato. Quel gretto materialista ha chiesto di essere pagato!

Seriamente parlando: spero che capirai che non posso accettare proposte di lavorare gratis. Niente di personale, ma detto fra noi trovo piuttosto assurdo che un'azienda chieda a un professionista di lavorare senza essere retribuito.

Ciao,

Paolo


Non è la prima volta che vi racconto le “offerte di lavoro” che mi arrivano e cito in proposito il video L’Uomo Visibile, ma credo che meriti sempre ricordarlo per sottolineare, con un sorriso amaro, questo malcostume così dannatamente diffuso.



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