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Disinformatico

September 4, 2012 21:00 , by profy Giac ;-) - | No one following this article yet.
Blog di "Il Disinformatico"

Video: l’intelligenza artificiale è una minaccia per i media e per il servizio pubblico radiotelevisivo?

April 10, 2024 11:44, by Il Disinformatico

Il 26 marzo scorso ho partecipato al dibattito pubblico organizzato da gioventudibatte.ch all’auditorium di BancaStato a Bellinzona sul tema dell’intelligenza artificiale e in particolare della sua eventuale pericolosità per i media e per il servizio pubblico radiotelevisivo. Ho argomentato che l’IA è soprattutto una minaccia per questo settore, insieme a Pierfranco Longo, presidente della Conferenza cantonale dei genitori e membro del Consiglio regionale Ssr.Corsi. Il punto di vista contrario è stato sostenuto da Reto Ceschi (responsabile del Dipartimento informazione alla Rsi) e da Alessandro Trivilini (docente e ricercatore in ingegneria e sicurezza informatica alla Supsi).

Ecco il video (40 minuti in tutto):

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Podcast RSI - WhatsApp abbassa l’età limite, navigazione anonima che non lo è, Playmate come standard tecnico

April 5, 2024 4:02, by Il Disinformatico
logo del Disinformatico

È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate qui sul sito della RSI (si apre in una finestra/scheda separata) e lo potete scaricare qui.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, Google Podcasts, Spotify e feed RSS.

Buon ascolto, e se vi interessano il testo di accompagnamento e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.

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Quattro anni di azione legale negli Stati Uniti hanno documentato quello che per molti sarà un tradimento informatico: la navigazione in incognito di Google Chrome è in realtà tutt'altro che in incognito e Google ha tracciato per anni le visite particolarmente sensibili che si fanno quando si usa questo modo di navigare nel Web. Intanto WhatsApp si prepara a cambiare di nuovo il limite minimo di età per usarlo, facendolo scendere da 16 a 13 anni anche in Europa. Se volete sapere perché WhatsApp finora ha avuto un limite di età così alto nel nostro continente e perché ora lo abbassa, siete nel posto giusto.

Benvenuti alla puntata del 5 aprile 2024 del Disinformatico , il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo, e oltre a queste notizie vi porto la strana storia di una foto di Playboy che è diventata uno standard tecnico per gli informatici. No, non sto scherzando. Cominciamo!

[SIGLA di apertura]

La navigazione in incognito non è in incognito

Uno dei miti più tenaci e durevoli fra gli utenti di Internet è l’idea che la navigazione in incognito sia, appunto, in incognito. Il nome di questa modalità di navigazione nel Web è infatti molto ingannevole e viene spesso frainteso.

La navigazione in incognito o anonima o privata, come la chiamano i vari browser, è in realtà semplicemente un modo per visitare siti senza lasciare tracce sul dispositivo che state usando. Non rimane memoria nella cronologia di navigazione, non vengono salvati cookie o file temporanei su quel dispositivo, tablet, computer o telefonino che sia. Ma i siti che visitate si ricordano eccome della vostra visita e sono perfettamente in grado di identificarvi. In particolare, è in grado di identificarvi Google, se navigate usando il suo browser Chrome.

È quello che emerge da una class action avviata nel 2020 negli Stati Uniti contro Google, i cui atti sono ora stati pubblicati : l’azienda ha concordato, non senza opporre grandissima resistenza per quattro anni, che cancellerà miliardi di dati raccolti mentre gli utenti di Chrome usavano la navigazione in incognito e probabilmente pensavano di navigare in modo anonimo, cullati da un falso senso di sicurezza.

L’azione legale prevede anche che Google aggiorni gli avvisi informativi che compaiono quando si attiva la navigazione in incognito. Questi avvisi dovranno dire molto chiaramente che Google raccoglie dati dai siti visitati, a prescindere dalla modalità di navigazione, in incognito o meno, e che i siti e le app che includono i servizi di Google scambiano in ogni caso informazioni con Google.

Sul versante tecnico, Chrome dovrà bloccare i cookie di terzi nella navigazione in incognito, visto che li usava per tracciare gli utenti durante questo tipo di navigazione su siti non appartenenti a Google, e dovrà oscurare parzialmente gli indirizzi IP per impedire la cosiddetta reidentificazione che permette di riassociare dati di navigazione apparentemente anonimi agli utenti che li hanno generati.

Gli effetti di questa azione legale si faranno sentire in tutto il mondo con i prossimi aggiornamenti di Chrome. Noi utenti non dobbiamo fare altro che aspettare questi aggiornamenti e installarli.

Ma nel frattempo resterà a molti l’amaro in bocca, perché solitamente la navigazione in incognito si usa proprio per visitare i siti di cui non si vuole lasciare traccia.

Per navigare veramente in incognito servono ben altre soluzioni: applicazioni come il browser Tor, per esempio. Ma questa è un’altra storia.


WhatsApp, il limite di età scenderà a 13 anni

Dall’11 aprile prossimo l’età minima consentita per l’uso di WhatsApp scenderà da 16 a 13 anni anche in tutta Europa, allineandola al resto del mondo. Il cambiamento era stato annunciato a febbraio e serve, secondo WhatsApp, a “garantire un requisito di età minima coerente a livello globale.” Il cambiamento si applica a tutta la “Regione europea”, come la chiama WhatsApp, e questa regione include i paesi dell’Unione Europea e anche la Svizzera.

Il limite di età di 16 anni era stato introdotto per l’Europa nel 2018, innalzandolo da 13 anni, per rispettare le normative dell’Unione Europea, in particolare il regolamento generale sulla protezione dei dati o GDPR, che obbliga le aziende a fare “sforzi ragionevoli” per verificare l’età e ottenere il consenso dei genitori per gli utenti sotto i 16 anni. In pratica, WhatsApp ha preferito alzare il limite formale di età piuttosto che mettere in funzione un complesso sistema di verifica (BBC). Ma adesso le nuove garanzie sulla protezione dei dati dei minori legate all’introduzione di un’altra norma, il Digital Services Act, permettono di tornare al limite precedente.

In ogni caso, il limite formale era ed è tuttora ampiamente ignorato, come nota Pro Juventute, segnalando che del resto non ci sono conseguenze legali per i minori di 16 anni che utilizzano WhatsApp” perché “secondo il diritto svizzero, mentire sull’età non è un reato punibile.”

Tuttavia dichiarare un’età non corretta viola i termini di servizio di WhatsApp, e quindi l’azienda potrebbe limitare o bloccare l’uso dell’app qualora si accorgesse che l’utente ha mentito. Cosa che succede spesso quando l’utente che si era iscritto anni fa a WhatsApp mentendo sull’età cerca in seguito di cambiare il proprio anno di nascita indicato nell’app, per allinearlo alla realtà: WhatsApp può accorgersi che l’account era stato aperto quando l’utente non aveva ancora l’età compatibile con le sue regole e quindi bloccare quell’account.

Va anche detto, soprattutto per i genitori confusi da tutti questi cambiamenti dei limiti di età dei vari social network, che la scelta dei 13 o 16 anni viene fatta da WhatsApp solo nel proprio interesse, per mettersi in regola con le norme, e non certo per tutelare i minori, per cui non va considerata come una linea guida per decidere se lasciare che i figli usino questo social network.

Fonti aggiuntive: ADNKronos, Dday.it, Laleggepertutti.it, WhatsApp, TechCrunch, WhatsApp.

Lena: la foto di Playboy che divenne standard tecnico

Siamo nell’estate nel 1973, alla University of Southern California, dove un ricercatore in campo informatico sta cercando un’immagine da usare come riferimento per i suoi test di digitalizzazione. Roba assolutamente sperimentale per l’epoca. Per la conferenza tecnica che sta preparando gli serve un’immagine su carta patinata che includa un volto umano. Guarda caso, arriva qualcuno con una copia di Playboy.

Viene strappata la parte superiore del paginone centrale della rivista, che raffigura una giovane donna che indossa solo un cappello e una piuma viola, nello stile tipico di Playboy , e ne viene fatta la scansione con i metodi primitivi di allora: lo scanner è uno di quelli per le telefoto, che richiede che l’immagine venga montata su un cilindro rotante, e fa la scansione nei tre colori primari, a una risoluzione di 100 linee per pollice; i dati risultanti vengono poi elaborati con un minicomputer Hewlett Packard 2100. Un procedimento complicato che produce un’immagine da soli 512x512 pixel, che oggi fa sorridere ma che per l’epoca è un risultato davvero notevole.

Il ricercatore sceglie solo la porzione dell’immagine che include le spalle nude e il volto della donna, perché ha un contrasto elevato e una notevole ricchezza di dettagli che la rendono ideale per i test dei sistemi di elaborazione delle immagini. O perlomeno è questa la giustificazione ufficiale per l’uso del volto di una Playmate in un mondo quasi esclusivamente maschile come quello dell’informatica degli anni Settanta.

Sia come sia, la soluzione improvvisata piace e diventa popolare, per cui altri ricercatori inziano a usare questa foto come campione di riferimento per valutare i propri programmi di compressione ed elaborazione delle immagini. In breve tempo quella fotografia di Playboy diventerà lo standard tecnico di tutto il campo nascente della fotografia digitale e verrà pubblicata in moltissimi articoli tecnici nelle riviste di settore nei decenni successivi. Sarà ancora in uso quasi quarant’anni dopo, nel 2012, quando un gruppo di ricercatori di Singapore dimostrerà di essere capace di stampare a colori immagini microscopiche, larghe come un capello (50 micrometri, ossia 5 centesimi di millimetro) e userà proprio questa foto come dimostrazione.

Se oggi abbiamo GIF, JPEG e tanti altri formati per la trasmissione di immagini lo dobbiamo anche a quest’improvvisazione californiana, fatta oltretutto in violazione del copyright e poi accettata di buon grado dall’editore della rivista.

Ma chi è la ragazza in questione? È nota fra i ricercatori semplicemente come “Lena” o “Lenna”, ma la rivista dalla quale fu prelevata la sua immagine la presentò come Lenna Sjööblom, Playmate di novembre 1972. Il suo vero nome è Lena (una N sola) Forsén, e all’epoca lavorava come modella.

Non capita spesso che una foto di una Playmate diventi uno standard tecnico, ma è andata così. Tuttavia le sensibilità sono cambiate rispetto a mezzo secolo fa e in effetti questa foto ha contribuito allo stereotipo della donna oggetto in un campo nel quale le donne, pur avendo fatto la storia dell’informatica, non venivano ben viste come colleghe dagli informatici di sesso maschile. Inoltre l’associazione con il marchio Playboy strideva in un ambiente accademico.

E così le riviste del prestigioso gruppo Nature hanno iniziato a rifiutarla già nel 2018. E la IEEE Computer Society, una delle associazioni più famose e influenti del settore a livello mondiale, ha annunciato che dal primo aprile 2024 non accetta più articoli scientifici che usino questa fotografia. Verrà rimpiazzata da altre immagini standard già in uso, chiamate Cameraman, Mandril o Peppers (esempio), ma se vi capita di consultare qualche articolo d’informatica d’epoca e vi chiedete chi sia la graziosa fanciulla che spicca nelle pagine piene di grafici e tabelle, ora sapete chi è e conoscete la sua strana storia.

Fonti aggiuntive: Wikipedia, Ars Technica.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Qualcuno mi segue ancora su Twitter? Mi hanno offerto di comprare il mio account. Chiedo il vostro parere

April 1, 2024 13:34, by Il Disinformatico

Ieri (31 marzo) ho postato su Twitter (mi rifiuto di chiamarlo X) un sondaggio informale per sapere quante persone effettivamente seguono il mio account Twitter, nel senso che vedono davvero i miei post. Perché Twitter dice che ho 413.309 follower, ma siccome non ho un account a pagamento i miei tweet non arrivano a tutti.

Test veloce: quanti di voi mi seguono realmente qui, e quanti vedono i miei tweet? Se avete letto questo tweet, mettete un like, per favore, così posso contarvi.

In cambio offro foto di gatto più coscia femminile per attirare la vostra attenzione.

Perché ve lo chiedo? / segue pic.twitter.com/gp3y65uSCV

— Paolo Attivissimo @ildisinformatico@mastodon.uno (@disinformatico) March 31, 2024

Questo tweet ha ricevuto 2882 like e secondo Twitter è stato visto da 48.530 account. Numeri ben lontani dai 413mila teorici. Purtroppo la gestione Musk ha massacrato Twitter e sembra intenzionata a continuare a lungo e con lo stesso approccio. Non è più la piattaforma di informazione immediata e in tempo reale che era prima: ora è soprattutto un ricettacolo di spam, hater e contenuti violenti. Ho smesso da tempo di pubblicarvi contenuti perché mi sembra inutile farlo con una voce silenziata dagli umori momentanei ma sempre più estremi di Elon Musk e rivolgendomi a un pubblico sempre più estremizzato e aggressivo. 

In altre parole, ho un account da oltre 400 mila follower che giace inutilizzato ma comprensibilmente fa gola ad alcuni operatori commerciali. Ho ricevuto un’offerta economica seria e abbastanza significativa per cedere l’account. Ho posto due condizioni principali: gli oltre 130 mila tweet che ho scritto in questi 17 anni (ho iniziato nel 2007) non verrebbero cancellati e l’account verrebbe rinominato. La parte interessata non è qualche setta complottista in vena di vendetta, forza politica o agenzia di propaganda o disinformazione: è un servizio commerciale di assistenza personale basato sull’intelligenza artificiale.

Francamente non so cosa fare. Da un lato mi spiace perdere un account che ha quasi due decenni di storia (che però tanto non legge nessuno); dall’altro la cifra proposta non è trascurabile, soprattutto per un account che non sto nemmeno usando. Però mi sembra di mancare di rispetto a tutti quei follower che hanno scelto di seguirmi in tutti questi anni (anche se ovviamente avviserei ripetutamente di un eventuale cambio di gestione dell’account e chi ha fatto l’offerta sa benissimo che in caso di cambio ci sarebbe una ressa di defollow immediati; sembra che a loro vada bene lo stesso).

Un’alternativa sarebbe ingoiare il rospo-Musk e pagare uno stramiliardario per avere un account non limitato, per poi riprendere a usarlo per postare notizie e avvisi. Ma l’idea di dare soldi a questo personaggio, per un social network che ha comprato per farne uno strumento di propaganda politica e di autocompiacimento personale, mi ripugna parecchio.

Se avete idee, sono tutt'orecchi: scrivetele nei commenti. 


Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Podcast RSI - Novità da Meta: interoperabilità, accuse di intercettazione dei rivali, il gioco nascosto dentro Instagram

March 29, 2024 5:44, by Il Disinformatico
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È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate qui sul sito della RSI (si apre in una finestra/scheda separata) e lo potete scaricare qui.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, Google Podcasts, Spotify e feed RSS.

Buon ascolto, e se vi interessano il testo di accompagnamento e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.

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Da pochi giorni Threads, l’app di messaggistica di Meta, permette di scambiare messaggi anche con chi non ha Threads: è insomma diventata interoperabile, e anche WhatsApp e Messenger stanno abbattendo le barriere di compatibilità. È una rivoluzione silenziosa nel modo in cui usiamo Internet. Ma non è l’unica notizia che ci arriva da Meta: c’è un’azione legale, negli Stati Uniti, che accusa i massimi dirigenti di Meta di aver violato le leggi sulla concorrenza e sulla riservatezza delle comunicazioni pur di riuscire ad acquisire dati sulle attività del rivale Snapchat.

Benvenuti alla puntata del 29 marzo 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica e in particolare, questa volta, a notizie che arrivano da Meta, come quella del giochino nascosto nell’app di Instagram. Se vi interessa sapere come attivare questo gioco, magari per stupire gli amici, restate in ascolto. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]

Meta entra davvero nel fediverso

Immaginate di poter usare una sola app per postare contemporaneamente su tutti i social network e per scambiare messaggi con chiunque usi un social diverso da quello che usate voi. Da WhatsApp potreste scrivere a chi sta su Messenger o Mastodon e viceversa, per esempio. Invece di tenere sul telefono tante app di messaggistica differenti e doversi ricordare che Mario è su Telegram e Piera sta su Snapchat e saltare in continuazione da un’app all’altra, potreste semplicemente scegliere una di queste app e usarla per comunicare con tutti.

Sarebbe bello, e sta cominciando a diventare realtà. Meta ha annunciato pochi giorni fa che la sua app Threads è ora in grado di scambiare messaggi con qualunque social network che usi lo standard ActivityPub, come per esempio Mastodon. E su un binario differente, anche WhatsApp e Messenger stanno diventando interoperabili con le app di messaggistica di altri gestori: in altre parole, stanno diventando capaci di scambiare messaggi con utenti che usano piattaforme differenti, a condizione che usino il protollo standard Signal o un suo equivalente.

Nel caso di Threads, questa interoperabilità è già attiva adesso per gli utenti che abbiano più di 18 anni, abbiano profili pubblici e abbiano account basati negli Stati Uniti, in Canada o in Giappone; gli altri paesi seguiranno a breve. È una funzione opzionale: per attivarla occorre andare nelle impostazioni dell’account Threads, leggere la spiegazione di cos’è il fediverso, e poi cliccare sul pulsante di attivazione. Per WhatsApp e Messenger, invece, bisognerà aspettare che i gestori delle altre piattaforme sottoscrivano gli accordi tecnici con Meta. Ma a parte questo, sembra che tutto sia pronto. Anche in questo caso sarà il singolo utente a decidere se attivare o meno questa possibilità di comunicare con una sola app verso piattaforme di messaggistica differenti.

Questo crollo dei muri di incompatibilità che per anni hanno tenuto in ostaggi gli utenti, che erano costretti a usare una specifica piattaforma e app, non avviene per caso. È merito della pressione dell’Unione Europea sui grandi social network, applicata anche tramite la nuova legge europea, il Digital Markets Act o DMA, entrato da poco in vigore, che obbliga Meta e gli altri gestori a diventare compatibili tra loro e abbattere questo ostacolo alla libera concorrenza.

Ci vorrà ancora parecchio tempo prima che si arrivi all’interoperabilità completa, anche perché ci sono ostacoli tecnici notevoli da superare, ma la tendenza è ormai chiara e inarrestabile, con una notevole semplificazione una volta tanto a favore di noi utenti.

Fonte aggiuntiva: TechCrunch.

Se sei su Snapchat, YouTube o Amazon, forse Facebook ti ha spiato

Un’azione legale in corso negli Stati Uniti ha rivelato che Facebook aveva un progetto segreto concepito per sorvegliare gli utenti del rivale Snapchat, che poi si è esteso a coprire anche YouTube e Amazon. La vicenda risale al 2016, quando Snapchat stava avendo un boom di utenti e Mark Zuckerberg, allora CEO di Facebook (oggi Meta), voleva a tutti i costi informazioni sul traffico di dati degli utenti di Snapchat, le cosiddette analytics, per capire i motivi del successo del concorrente e sviluppare prodotti che potessero arginarlo. Ma queste informazioni non erano disponibili, perché Snapchat usava la crittografia per proteggere il proprio traffico di dati.

Così la società Onavo, acquisita da Facebook tre anni prima, fu incaricata di sviluppare una soluzione questo problema: un kit che veniva installato sui dispositivi iOS e Android per intercettare il traffico prima che venisse crittografato, usando un attacco di tipo man in the middle tipicamente adoperato dai malintenzionati.

Questo kit fu distribuito da altre aziende come se fosse un loro prodotto, con un loro marchio distinto, in modo che fosse difficile ricollegare i vari prodotti alla singola fonte, ossia Onavo. Inoltre a volte gli utenti più giovani di Snapchat venivano pagati fino a 20 dollari al mese ciascuno per accettare di installare questi kit spioni, presentati agli utenti come se fossero delle VPN, sotto il nome di Onavo Protect: questo comportamento fu segnalato pubblicamente dal sito TechCrunch e denunciato dalla commissione australiana per la concorrenza e poco dopo Facebook chiuse il progetto, che era stato attivato nel 2016 per intercettare il traffico di Snapchat e poi era stato esteso a YouTube nel 2017 e ad Amazon nel 2018, creando anche certificati digitali falsi per impersonare server fidati di queste aziende e decifrare i dati sul traffico degli utenti, passandolo a Facebook.

L‘azione legale attualmente in corso chiarirà colpe e responsabilità dal punto di vista tecnico e giuridico, ma le dichiarazioni interne degli addetti ai lavori di Facebook, rese pubbliche dagli atti della class action intentata da utenti e inserzionisti pubblicitari, sembrano piuttosto inequivocabili.

Non riesco a pensare a una sola buona ragione per dire che questa cosa è a posto”, aveva scritto per esempio in una mail interna Pedro Canahuati, all’epoca responsabile principale per l’ingegneria di sicurezza di Facebook. I responsabili della sicurezza dell’azienda, insomma, erano contrari a questo tipo di comportamento, ma furono scavalcati.

Oltre alla prassi discutibilissima di presentare un software di sorveglianza dicendo che si tratta solo di una VPN, cioè di una cosa che gli utenti interpretano come un prodotto che protegge la privacy delle loro attività online, c’è anche il problema che secondo gli inserzionisti pubblicitari Facebook approfittò dei dati intercettati usando questo software, per imporre costi di inserzione ben più alti di quelli che avrebbe potuto chiedere in un mercato non alterato. Tutte cose da ricordare la prossima volta che Meta fa promesse di privacy ai suoi tre miliardi e mezzo di utenti.

Fonte aggiuntiva: Ars Technica.

Il giochino nascosto in Instagram

E per finire, una piccola chicca che forse alcuni di voi conoscono già: negli ultimi aggiornamenti dell’app di Instagram c’è un gioco nascosto, che richiama un po’ i vecchi videogiochi come Breakout o Pong. C‘è un emoji che si muove sullo schermo e c’è in basso un cursore scuro da usare con un dito per parare quell'emoji ed evitare che cada, facendolo rimbalzare il più a lungo possibile sullo schermo. Man mano che riuscite a continuare queste parate, l’emoji si muove sempre più velocemente.



Per accedere a questo giochino nascosto bisogna inviare un messaggio diretto a qualcuno, scrivendo in quel messaggio un singolo emoji, quello con il quale desiderate giocare. Magari è il caso anche di avvisare la persona a cui mandate questo messaggio che non state mandand emoji a caso. Dopo averlo inviato, toccate l’emoji e si avvierà il gioco. Un altro modo per rivelare il gioco è cliccare su un emoji inviato da qualcun altro tramite messaggio diretto. A quanto pare il gioco non è ancora disponibile a tutti gli utenti, per cui provate e vedete cosa succede. Buon divertimento!

Fonte: TechCrunch.

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L’intelligenza artificiale è una minaccia per i media e per il servizio pubblico radiotelevisivo? Ne parliamo stasera alle 18 a Bellinzona

March 25, 2024 23:57, by Il Disinformatico

Stasera (26 marzo) sarò all’auditorium di BancaStato a Bellinzona per partecipare a un dibattito pubblico sul tema dell’intelligenza artificiale, e in particolare della sua eventuale pericolosità per i media e per il servizio pubblico radiotelevisivo.

Sosterrò la posizione ‘pro’, ossia che l’IA sia soprattutto una minaccia per questo settore, insieme a Pierfranco Longo, presidente della Conferenza cantonale dei genitori e membro del Consiglio regionale Ssr.Corsi. 

A difendere la posizione ‘contro’ saranno presenti Reto Ceschi (responsabile del Dipartimento informazione alla Rsi) e Alessandro Trivilini (docente e ricercatore in ingegneria e sicurezza informatica alla Supsi).

L’appuntamento è organizzato nell’ambito della collaborazione fra Ssr, Corsi e La gioventù dibatte ed è aperto a tutti. Dopo il dibattito seguiranno le domande del pubblico e un aperitivo offerto al ristorante Prisma. Se vi interessa partecipare, è gradita l’iscrizione attraverso il sito gioventudibatte.ch.

La serata verrà videoregistrata e resa disponibile successivamente.

Se volete saperne di più:

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