Il Delirio del Giorno: “KITEGEN Eolico di Stratosfera”
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Commento inviato all’articolo "Disinformatico, podcast del 2011/08/05" e ritrovato oggi durante le pulizie dei miei archivi. Ho rimosso i dati identificativi principali.
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Quali auto s’incendiano di più, quelle elettriche o quelle a pistoni?
June 19, 2018 5:28Ultimo aggiornamento: 2018/06/19 10:30.
La Tesla del marito dell’attrice Mary McCormack ha preso fuoco senza motivo evidente il 16 giugno scorso (tweet; video) e la vicenda ha subito fatto il giro del mondo nei media (The Guardian; BBC; Repubblica; e tanti altri). Non si è fatto male nessuno e l’incendio è stato spento, ma fa niente, il titolone è assicurato.
Avete notato che si parla di incendi di auto elettriche solo quando ci sono di mezzo le Tesla? Eppure tutte le auto elettriche possono prendere fuoco. Vorrei cogliere l’occasione per smontare questa credenza molto diffusa, secondo la quale le auto elettriche non possono incendiarsi perché non contengono carburante. In realtà possono prendere fuoco anche loro, anche se meno frequentemente, a quanto risulta dai dati.
Le batterie delle auto elettriche, infatti, possono andare in corto circuito, per esempio a seguito di un impatto molto violento oppure per un difetto di fabbricazione, e questo corto circuito genera calore. Il calore può incendiare le sostanze chimiche presenti nella batteria, innescando ulteriori danni che possono far propagare l’incendio.
La differenza fra un incendio di un’auto a pistoni e quello di un’auto elettrica è che il primo è molto più rapido: di solito il carburante prende fuoco a causa di un contatto con una scintilla o una fiamma e le fiamme si propagano rapidamente.
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Incendio di un’auto a pistoni avvenuto durante la marcia normale. Credit: Polizia Cantonale Lucerna tramite Tio.ch, 18/6/2018. |
Un incendio di una batteria, invece, si innesca e si propaga molto più lentamente, dando tempo agli occupanti di uscire dall’auto e mettersi in salvo.
Per contro, questo tipo di incendio può avvenire a distanza di tempo dall’evento che l’ha causato: un urto contro un ostacolo per strada può innescare un incendio che rimane occulto ma si scatena quando l’auto è in garage, estendendo i danni.
Lo spegnimento di un incendio di una batteria, inoltre, è più impegnativo rispetto a quello di un incendio di un serbatoio di carburante: richiede maggiori quantità di sostanze estinguenti e può reinnescarsi a distanza di tempo per il calore residuo, per cui un’auto elettrica incendiata va messa in “quarantena” in un luogo sicuro per qualche giorno finché si è raffreddata.
Le batterie delle auto elettriche sono protette da un guscio estremamente resistente e sono collocate in una posizione centrale che le protegge ulteriormente, ma un impatto sufficientemente violento comunque può rompere questa protezione.
Il problema è che le auto elettriche sono una novità e quindi attirano l’attenzione dei media e stimolano le ansie. Le auto a pistoni, invece, sono in giro da più di un secolo e quindi ci siamo totalmente assuefatti all’idea di andare in giro con decine di litri di liquido altamente infiammabile a ridosso dell’abitacolo.
La copertura mediatica ossessiva degli incendi delle Tesla può dare l’impressione che le auto elettriche prendano fuoco un po’ troppo spesso e facilmente e quindi siano più pericolose delle auto a pistoni. Ma è vero? Proviamo a prendere un po’ di dati su cui ragionare.
Secondo i dati più recenti della National Fire Protection Association statunitense, che risalgono al 2015, in quell’anno ci sono stati (negli USA) 174.000 incendi di veicoli a benzina (auto, moto, autobus, camion e rimorchi), che hanno causato 445 morti e 1550 feriti. In altre parole, negli Stati Uniti prendono fuoco in media ogni giorno 476 veicoli a pistoni, uno ogni tre minuti, ma non fanno notizia. Eppure ci sono stati numerosi incendi spontanei di BMW parcheggiate, per esempio, come mostrato qui sotto.
I veicoli circolanti negli Stati Uniti erano, nel 2015, circa 263 milioni (dati Statista.com). Quelli elettrici erano una frazione trascurabile (540.000, ossia circa lo 0,2%). Quindi si può dire, come prima approssimazione, che in media negli USA in un anno si incendia un veicolo a pistoni su 1511.
Non sono riuscito a trovare dati statistici sugli incendi di auto elettriche nello stesso territorio e periodo, a parte questo articolo di CNN che parla di una quarantina di incendi di Tesla in tutta la storia pluriennale di queste auto. Wikipedia ha un elenco parziale di incendi di auto elettriche di altre marche. Per l’Italia, @gabrieleborra mi segnala questo documento del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, che parla di 22680 incendi di autoveicoli (totale per tutte le cause) nel 2015; lo stesso Gabriele mi segnala anche dei dati riferiti alla Germania su Wikipedia in tedesco e su AutoZeitung (40 incendi al giorno nella sola Germania) e dei calcoli fatti da Autorevue.at.
Per essere alla pari con i veicoli a pistoni (1 su 1511), le auto elettriche dovrebbero prendere fuoco al ritmo di 357 l’anno, ossia circa una al giorno. Mi sembra che la copertura mediatica degli incendi di auto elettriche, per quanto insistente, non dia supporto a questo numero.
Sono conti spannometrici, per carità, ma credo che comunque smontino una percezione errata.
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Una BMW X5 a pistoni (credit: ABC News). |
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Una BMW Z4 a pistoni (credit: ABC News). |
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Una BMW serie 3 (credit: ABC News). |
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Loot box, videogiochi progettati per creare dipendenza
June 19, 2018 4:06Se vi siete mai chiesti se i videogiochi sono progettati appositamente per creare dipendenza, vi siete fatti la domanda giusta, e la risposta è sì. Lo ammettono gli stessi creatori parlando in particolare delle cosiddette “loot box”, ossia le “scatole-premio” che sono diventate onnipresenti nei giochi più recenti.
Una loot box è un contenitore, una sorta di scrigno, che il giocatore ogni tanto trova, conquista o acquista nel gioco e apre senza sapere in anticipo cosa contiene: un’arma, una mossa di vittoria, una skin (ossia un vestiario o un aspetto nuovo per il proprio personaggio), delle monete virtuali o altro ancora. A volte si tratta di risorse utili per avanzare nel gioco, ma spesso si tratta di pure decorazioni da ostentare agli altri giocatori.
Ma in realtà non importa cosa ci sia nella loot box: quello che conta, per il giocatore, è l’euforia intensa che prova prima di aprirla, pregustandone il possibile contenuto e assaporando la gioia che proverà se la loot box contiene qualcosa che desidera. Questo brivido verrà spesso deluso, ma ogni tanto il premio desiderato arriverà, spingendo il giocatore a continuare a cercare di nuovo quell’euforia. Non è questione di bravura, ma solo di fortuna.
Se avete percepito in tutto questo un parallelo fra le loot box e le slot-machine, le macchine mangiasoldi nelle quali si tira una leva o si schiaccia un pulsante e si attende un risultato casuale che potrebbe essere una vincita, avete lo stesso dubbio di molti enti governativi di vari paesi, come Francia, Germania, Svezia, Belgio, Regno Unito, che si stanno chiedendo se le loot box dei videogiochi debbano essere regolamentate o bandite perché sarebbero in sostanza dei giochi d’azzardo mascherati, offerti oltretutto anche a minorenni.
Di certo la psicologia è la stessa. Gli esperti definiscono questo meccanismo “rinforzo a rapporto variabile” (o variable rate reinforcement) e sanno che l’incertezza del premio, più che il premio stesso, agisce intensamente sul sistema dopaminergico del cervello, in modo simile ai farmaci che producono dipendenza, e che quest’incertezza è la modalità di rinforzo più efficace in assoluto.
Lo sanno bene anche i creatori di giochi, come per esempio il popolarissimo Overwatch, che include appositamente animazioni ricchissime per il rito di apertura delle loot box, con suoni, musiche e colori vivaci. La scatola-premio vibra, scoppia e scaglia verso il cielo quattro dischi, il cui colore anticipa la categoria del premio senza però svelarne la natura esatta fino all’ultimo istante. Come dice uno dei progettisti principali del gioco, Jeremy Craig, “è tutta questione di costruire pregustazione. Quando vedi viola oppure oro, cominci a pensare a quale premio leggendario o epico hai aperto. Succede tutto così in fretta, ma sono questi passi specifici che secondo noi massimizzano l’eccitazione e la pregustazione.”
Tanta attenzione a questo dettaglio del gioco è motivata dal fatto che le loot box contribuiscono massicciamente a generare incassi enormi per le case produttrici di videogiochi: Blizzard, che produce Overwatch, ha avuto ricavi per un miliardo di dollari; Supercell, padrona di Clash of Clans, ha incassato due miliardi; Riot Games, che gestisce League of Legends, ne ha portati a casa altrettanti, secondo i dati del 2017 raccolti da The Verge e Venturebeat: le vendite in-game di Blizzard sono salite del 25% in un anno in gran parte grazie alle spese dei 30 milioni di giocatori per le loot box di Overwatch.
Molti di questi soldi, fra l’altro, arrivano da due fonti decisamente discutibili: gli acquisti in-app ingannevoli che prendono di mira le vulnerabilità dei minorenni inducendoli a rubare e mentire pur di poter spendere migliaia di dollari (USA Today, Grunge, Cracked) e le whale, ossia i giocatori che spendono volontariamente altre migliaia di dollari, come raccontano Recode e Swrve Un solo dato su cui riflettere_ metà degli acquisti in-app proviene dallo 0,15% dei giocatori.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato come malattia la dipendenza da videogiochi (gaming disorder), con tre caratteristiche (BBC):
- Perdita di controllo durante il gioco
- Prioritizzazione del gioco rispetto agli altri interessi
- Uso crescente del gioco nonostante le conseguenze negative
Sapere che veniamo manipolati in questo modo è il primo passo per non intossicarsi e giocare in modo sano.
Podcast del Disinformatico del 2018/06/15
June 18, 2018 8:32È disponibile per lo scaricamento il podcast della puntata di venerdì scorso (15 giugno) del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera.
Tutti i podcast più recenti sono ascoltabili in streaming e scaricabili da questa pagina del sito della RSI; in alcuni casi trovate anche lo streaming video. Buon ascolto!
Addio Pebble, arriva Rebble
June 17, 2018 13:03Pebble, la società che produceva smartwatch e che è stata comprata da Fitbit nel 2016, cesserà i servizi agli utenti il 30 giugno, dopo un lungo preavviso (l’annuncio è stato fatto a gennaio scorso; gli sviluppatori ne parlavano a dicembre 2016). Non funzioneranno più l’app store, i forum, le funzioni di riconoscimento vocale, la gestione degli SMS e delle mail su iOS (quella su Android sì) e altro ancora; gli orologi in sé continueranno a funzionare.
Sono un felice utente di un Pebble Round da due anni, ed è quindi con piacere che scopro (grazie all’avviso di @ruggio81) che è nato un progetto “ribelle” della comunità degli utenti per tenere in vita i servizi di supporto software ai Pebble. Con un ottimo gioco di parole, si chiama Rebble.
Chi vuole mantenere il supporto al proprio Pebble deve quindi creare un account presso Rebble prima del 30 giugno se vuole importare in Rebble i dati del proprio account Pebble prima che Fitbit li elimini.
La procedura è semplice: create un account Rebble usando le credenziali di un account Google, Twitter, Facebook o Github; poi vi viene chiesto di fare login nel vostro account Pebble; infine ottenete una schermata di conferma. A questo punto non vi resta che attendere notizie.
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