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Disinformatico

4 de Setembro de 2012, 21:00 , por profy Giac ;-) - | No one following this article yet.
Blog di "Il Disinformatico"

Podcast RSI - Gli smartphone ci ascoltano? No, ma...

6 de Setembro de 2024, 5:18, por Il Disinformatico
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È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate qui sul sito della RSI (si apre in una finestra/scheda separata) e lo potete scaricare qui.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, Google Podcasts, Spotify e feed RSS.

Buon ascolto, e se vi interessano il testo di accompagnamento e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.

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I telefonini ascoltano le nostre conversazioni per bombardarci di pubblicità? La risposta degli esperti è sempre stata un secco “no”, nonostante la montagna di aneddoti e di casi personali raccontati dagli utenti, che dicono in tanti di aver visto sul telefonino la pubblicità di uno specifico prodotto poco dopo aver menzionato ad alta voce il nome o la categoria di quel prodotto.

La tecnologia, però, galoppa, i telefonini diventano sempre più potenti e i pubblicitari diventano sempre più avidi di dati personali per vendere pubblicità sempre più mirate ed efficaci, e quindi oggi quel secco “no” va aggiornato, trasformandolo in un “no, ma…”, perché un’azienda importante è stata colta a proporre ai clienti proprio questo tipo di ascolto delle conversazioni a scopo pubblicitario.

Questa è la storia di quel “no” e soprattutto di quel “ma”. Non è il caso di farsi prendere dal panico, ma è opportuno sapere dove sta andando la tecnologia e quali semplici gesti si possono fare per evitare il rischio di essere ascoltati dai nostri inseparabili smartphone.

Benvenuti alla puntata del 6 settembre 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]

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Se ne parla da anni: moltissime persone sono convinte che i loro smartphone ascoltino costantemente le loro conversazioni e colgano le parole chiave di quello che dicono, selezionando in particolare i termini che possono interessare ai pubblicitari. C’è la diffusissima sensazione che basti parlare di una specifica marca di scarpe o di una località di vacanze, senza cercarla su Internet tramite il telefonino, per veder comparire sullo schermo la pubblicità di quel prodotto o di quel servizio. Praticamente tutti i proprietari di smartphone possono citare casi concreti accaduti a loro personalmente.

Restano inascoltate, invece, le spiegazioni e le indagini fatte dagli esperti in vari paesi del mondo in questi anni. I test e le inchieste della rete televisiva statunitense CBS e della Northeastern University nel 2018, gli esperimenti della BBC insieme alla società di sicurezza informatica Wandera nel 2019, l’inchiesta del Garante italiano per la protezione dei dati personali nel 2021: tutte queste ricerche sul problema non hanno portato a nulla. Non c’è nessuna conferma oggettiva che i telefonini ci ascoltino e mandino ai pubblicitari le nostre parole per impostazione predefinita. Quando si fanno i test in condizioni controllate, il fenomeno sparisce.

Per esempio, nella loro indagine del 2019, la BBC e Wandera hanno messo due telefonini, un Android di Samsung e un iPhone di Apple, in una stanza e per mezz’ora hanno fatto arrivare nella stanza l’audio di pubblicità di cibo per cani e per gatti. Hanno anche piazzato due telefonini identici in una stanza isolata acusticamente. Tutti questi telefoni avevano aperte le app di Facebook, Instagram, SnapChat, YouTube e Amazon, insieme al browser Chrome, e a tutte queste app erano stati dati tutti i permessi richiesti.

I ricercatori hanno successivamente controllato se nelle navigazioni fatte dopo il test con quegli smartphone sono comparse pubblicità di cibi per animali domestici e hanno analizzato il consumo della batteria e la trasmissione di dati durante il test. Hanno ripetuto tutta questa procedura per tre giorni, e il risultato è stato che non sono comparse pubblicità pertinenti sui telefonini esposti agli spot di cibi per animali e non ci sono stati aumenti significativi del consumo di batteria o della trasmissione di dati. I consumi e le trasmissioni di dati sono stati praticamente uguali per i telefoni esposti all’audio pubblicitario e per quelli nella stanza silenziosa.

Se ci fosse un ascolto costante e un’altrettanto costante analisi dell’audio ambientale, questo produrrebbe un aumento dei consumi, perché il processore del telefono lavorerebbe in continuazione, e ci sarebbe un aumento della trasmissione di dati, per inviare le informazioni ascoltate ai pubblicitari. E invece niente. Anzi, i ricercatori hanno osservato che i telefonini Android nella stanza isolata acusticamente trasmettevano più dati rispetto a quelli esposti all’audio preparato per l’esperimento, mentre gli iPhone facevano il contrario.

Altri esperimenti analoghi sono stati fatti negli anni successivi, e tutti hanno dato gli stessi risultati. Il picco di consumo energetico e di trasmissione di dati prodotto dagli assistenti vocali, cioè Siri e OK Google, è sempre emerso chiaramente in questi test. Questi assistenti vocali sono in ascolto costante per impostazione predefinita (anche se si possono disattivare), e questo non è minimamente in dubbio, ma lavorano in maniera molto differente rispetto a un ipotetico ascolto pubblicitario.

Gli assistenti vocali, infatti, ascoltano l’audio ambientale alla ricerca di suoni che somiglino a una o due parole chiave di attivazione – tipicamente “Ehi Siri” e “OK Google” – e quando credono di averle sentite iniziano una vistosissima trasmissione di dati verso le rispettive case produttrici. L’ipotetico ascolto pubblicitario, invece, dovrebbe cercare e riconoscere un insieme di parole molto più vasto e magari anche in più di una lingua, e questo richiederebbe molta più potenza di calcolo e quindi consumi molto più elevati, e poi dovrebbe trasmettere dei dati, cosa che i test finora hanno smentito.

Ma allora perché abbiamo la forte sensazione che i telefonini ci ascoltino lo stesso a scopo pubblicitario? E perché avete probabilmente la sensazione altrettanto forte che alla fine di questo mio racconto ci sia una novità che smentisce tutto quello che si era scoperto fin qui?

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La sensazione di ascolto pubblicitario viene spiegata dagli esperti con la cosiddetta “illusione di frequenza”, per usare il termine coniato dal professore di linguistica Arnold Zwicky della Stanford University. In parole povere, tendiamo a notare le coincidenze e a dimenticare le non coincidenze. Nel corso della giornata vediamo moltissime pubblicità, ma ci rimangono impresse solo quelle che coincidono con qualcosa che abbiamo detto o fatto. E quando la coincidenza è particolarmente specifica ci colpisce anche emotivamente.

Va detto che la pubblicità che vediamo sui nostri dispositivi non è affatto casuale, e quindi le coincidenze sono agevolate: Google e Facebook, per esempio, usano un vasto assortimento di tecniche per dedurre i nostri interessi e proporci pubblicità mirata. Sanno dove ci troviamo minuto per minuto, grazie alla geolocalizzazione del GPS e del Wi-Fi; sanno con chi siamo e con chi trascorriamo più tempo, grazie al monitoraggio passivo dei dispositivi Bluetooth nelle nostre vicinanze, all’analisi del traffico di messaggi e al fatto che affidiamo a loro le nostre agende e le nostre rubriche telefoniche; sanno cosa scriviamo nelle mail o rispettivamente sui social network. Con dati del genere, ascoltare le conversazioni è praticamente superfluo. Oltretutto la legalità di un ascolto di questo tipo sarebbe molto controversa, visto che si tratterebbe in sostanza di una intercettazione di massa di conversazioni che si ha il diritto di presumere che siano private.

Va anche detto, però, che non è un mistero che esistano tecnologie di ascolto installabili sugli smartphone. I servizi di sicurezza dei vari governi le usano abitualmente per intercettare le comunicazioni delle persone indagate. Già dieci anni fa, Edward Snowden spiegò che l’NSA aveva accesso diretto ai sistemi di Google, Facebook e Apple nell’ambito di un programma di sorveglianza governativa denominato PRISM [The Guardian, 2013]. Ma si tratta di intercettazioni mirate, specifiche, ordinate da un governo su bersagli selezionati, non di ascolti di massa, collettivi e senza basi legali. In ogni caso, è indubbio che usare uno smartphone come microfono nascosto, a insaputa dell’utente, sia tecnicamente possibile.

Si sa anche di un caso conclamato di ascolto ambientale tramite telefonini a scopo commerciale: nel 2019 l’app ufficiale del campionato spagnolo di calcio, LaLiga, fu colta a usare il microfono e la geolocalizzazione degli smartphone degli utenti per identificare i locali che trasmettevano le partite senza autorizzazione. L’agenzia spagnola per la protezione dei dati impose all’organizzazione sportiva una sanzione di 250.000 euro per questo comportamento. Ma anche in questo caso, si trattava di un ascolto effettuato da una specifica app, installata su scelta dell’utente, con tanto di richiesta esplicita del permesso di usare il microfono del telefono, non di una attivazione collettiva e nascosta dei microfoni di tutti gli smartphone così come escono dalla fabbrica.

Questa storia, però, prosegue a dicembre 2023, quando alcuni giornali segnalano che una società di marketing, la statunitense Cox Media Group, avrebbe “ammesso di monitorare le conversazioni degli utenti per creare annunci pubblicitari personalizzati in base ai loro interessi” [Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2023, paywall].

Sembra essere la conferma che il sentimento popolare era giusto e che gli esperti avevano torto. Ma per capire come stanno realmente le cose bisogna andare un pochino più a fondo.

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La scoperta di questa presunta ammissione da parte di Cox Media Group è merito della testata 404 Media, che ha pubblicato lo scoop in un articolo riservato agli abbonati e quindi non immediatamente accessibile [paywall].

Ma pagando l’abbonamento e andando a leggere l’articolo originale, come ho fatto io per questo podcast, emerge che non c’è nessuna ammissione di monitoraggio in corso, ma semplicemente c’è l’annuncio che Cox Media Group dispone della capacità di effettuare un eventuale monitoraggio tramite i microfoni degli smartphone e anche tramite quelli dei televisori smart e di altri dispositivi. Non c’è nessuna dichiarazione che la stia realmente usando.

Anzi, il materiale promozionale di Cox Media Group dice che questa tecnologia, denominata “Active Listening” o “ascolto attivo”, “è agli albori” (“Active Listening is in its early days”), e presenta questa capacità tecnica come “una tecnica di marketing adatta al futuro, disponibile oggi” [“a marketing technique fit for the future. Available today”].

Le affermazioni promozionali di Cox Media Group, ora rimosse ma salvate su Archive.org.

È disponibile, ma questo non vuol dire che venga usata. E i consulenti di vendita dell’azienda la presentano come se fosse un prodotto nuovo in cerca dei primi clienti.

I clienti di Cox Media Group, stando all’azienda, sono nomi come Amazon, Microsoft e Google. Stanno usando questa tecnologia di ascolto? Le risposte che hanno dato ai colleghi di 404 Media a dicembre scorso sembrano dire di no, ma inizialmente è mancata una smentita secca da parte loro. Smentita che è invece arrivata subito, stranamente, da Cox Media Group stessa, che ha dichiarato ai giornalisti di 404 Media che “non ascolta conversazioni e non ha accesso a nulla più di un insieme di dati fornito da terze parti e anonimizzato, aggregato e completamente cifrato usabile per il piazzamento pubblicitario” e ha aggiunto che si scusa per “eventuali equivoci”.

Eppure il suo materiale promozionale dice cose decisamente difficili da equivocare. O meglio, le diceva, perché è scomparso dal suo sito [è disponibile copia d’archivio su Archive.org e su Documentcloud.org, che contiene frasi come “No, it’s not a Black Mirror episode - it’s Voice Data” e “Creepy? Sure. Great for marketing? Definitely”].

Ma pochi giorni fa, sempre 404 Media ha reso pubblica una presentazione di Cox Media Group nella quale l’azienda parla esplicitamente di “dispositivi smart” che “catturano dati di intenzione in tempo reale ascoltando le nostre conversazioni” (“Smart devices capture real-time intent data by listening to our conversations”), parla di consumatori che “lasciano una scia di dati basata sulle loro conversazioni e sul loro comportamento online” (“Consumers leave a data trail based on their conversations and online behavior”) e parla di “dati vocali” (“voice data”).

Ma allora come stanno le cose? È indubbio, anche grazie alle testimonianze raccolte dai giornalisti di 404 Media, che Cox Media Group abbia cercato di vendere questa sua presunta capacittà di ascoltare le nostre conversazioni. Ma l’ha davvero venduta, ed è realmente in uso? Sembra proprio di no.

Anzi, dopo che si è diffusa la notizia di questa sua offerta di tecnologie di ascolto, Google ha tolto Cox Media Group dal programma Google Partners dedicato ai migliori inserzionisti, nel quale la Cox era presente al massimo livello da oltre 11 anni. Amazon ha dichiarato di non aver mai lavorato con la Cox al programma di ascolto. Meta, invece, dice che sta valutando se la Cox abbia violato i termini e le condizioni della loro collaborazione, mentre Microsoft non ha rilasciato commenti.

Insomma, formalmente intorno a chi ha proposto di ascoltare le nostre conversazioni a scopo pubblicitario è stata fatta terra bruciata, per cui tutta la vicenda sembra più un maldestrissimo tentativo di proporre una tecnologia di ascolto che una conferma di una sua reale applicazione in corso. E la rivelazione di questo tentativo mette in luce la falla non tecnica ma molto umana di qualunque piano di ascolto globale segreto delle conversazioni a scopo pubblicitario: è praticamente impossibile tenere nascosta una tecnologia del genere, che va presentata ai potenziali partner, va pubblicizzata agli addetti ai lavori, ai rivenditori, ai tecnici e a chissà quante altre persone. Il segreto dovrebbe essere condiviso da un numero enorme di persone, e prima o poi qualcuna di queste persone si lascerebbe sfuggire qualcosa oppure, presa da rimorsi di coscienza, vuoterebbe il sacco.

Anche stavolta, quindi, possiamo stare tranquilli, ma solo grazie al fatto che ci sono giornalisti che vigilano e segnalano i tentativi di invadere uno spazio così personale come quello di una chiacchierata privata tra colleghi, amici o coniugi. Perché un’invasione del genere è illegale è immorale, ma questo non impedirà a persone e aziende senza scrupoli di provarci lo stesso. E se comunque preferite spegnere il telefonino prima di una conversazione sensibile di qualunque tipo, male non fa. Non si sa mai.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Pranzo dei Disinformatici 2024: aperte le iscrizioni. Ci troveremo sabato 5 ottobre

5 de Setembro de 2024, 15:20, por Il Disinformatico

Come preannunciato, il Pranzo dei Disinformatici 2024 si terrà in uno dei Consueti Locali nella zona di Milano il 5 ottobre prossimo. Per iscriversi, e per tutte le informazioni, scrivete al Supremo Maestro di Cerimonie, Martino, a martinobri(@)outlook.it, indicando il nickname che usate su questo blog.

Spero di vedervi!

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Stamattina alle 11 torno a Rete Tre con “Niente panico”

2 de Setembro de 2024, 5:50, por Il Disinformatico

Stamattina sarò in diretta sulla Rete Tre della Radiotelevisione Svizzera per la prima puntata della nuova serie di Niente Panico, un mix di notizie informatiche, chicche e musica, insieme a Rosy Nervi.

Se volete seguire la diretta: https://www.rsi.ch/audio/rete-tre/live.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Podcast RSI - L’IA ha troppa fame di energia. Come metterla a dieta

30 de Agosto de 2024, 6:22, por Il Disinformatico
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È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate qui sul sito della RSI (si apre in una finestra/scheda separata) e lo potete scaricare qui.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, Google Podcasts, Spotify e feed RSS.

Buon ascolto, e se vi interessano il testo di accompagnamento e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.

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Una singola domanda a ChatGPT consuma grosso modo la stessa energia elettrica che serve per tenere accesa una lampadina comune per venti minuti e consuma dieci volte più energia di una ricerca in Google. La fame di energia dell’intelligenza artificiale online è sconfinata e preoccupante. Ma ci sono soluzioni che permettono di smorzarla.

Questa è la storia del crescente appetito energetico dei servizi online, dai social network alle intelligenze artificiali, del suo impatto ambientale e di come esiste un modo alternativo per offrire gli stessi servizi con molta meno energia e con molto più rispetto per la nostra privacy. Perché ogni foto, ogni documento, ogni testo che immettiamo in ChatGPT, Gemini, Copilot o altri servizi online di intelligenza artificiale viene archiviato, letto, catalogato, analizzato e schedato dalle grandi aziende del settore.

Benvenuti alla puntata del 30 agosto 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]

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Una recente indagine pubblicata da NPR, una rinomata organizzazione indipendente non profit che comprende un migliaio di stazioni radio statunitensi ed è stata fondata dal Congresso degli Stati Uniti, fa il punto della situazione sulla nuova fame di energia dovuta al boom delle intelligenze artificiali.

Quando usiamo un servizio online di intelligenza artificiale, come ChatGPT, Copilot o Gemini, per citare i più diffusi, i complessi calcoli necessari per elaborare e fornirci la risposta non avvengono sul nostro computer, tablet o telefonino, per cui non ci accorgiamo di quanta energia viene consumata per restituirci quella risposta. Il nostro dispositivo non fa altro che prendere la nostra richiesta, inoltrarla via Internet a questi servizi, e ricevere il risultato, facendocelo vedere o ascoltare.

Ma dietro le quinte, le intelligenze artificiali online devono disporre di grandi data center, ossia strutture nelle quali vengono radunati computer appositi, dotati di processori dedicati all’intelligenza artificiale, che hanno dei consumi energetici prodigiosi. Secondo una stima riportata da NPR, una singola richiesta a ChatGPT usa all’incirca la stessa quantità di energia elettrica necessaria per tenere accesa una normale lampadina per una ventina di minuti. Immaginate milioni di persone che interrogano ChatGPT tutto il giorno, e pensate a venti minuti di lampadina accesa per ogni domanda che fanno a questa intelligenza artificiale.

Secondo un’analisi pubblicata dalla banca d’affari Goldman Sachs a maggio 2024, una richiesta fatta a ChatGPT consuma 2,9 wattora di energia elettrica, quasi dieci volte di più di una normale richiesta di ricerca fatta a Google [0,3 wattora] senza interpellare i suoi servizi di intelligenza artificiale. Questa analisi stima che il fabbisogno energetico mondiale dei data center che alimentano la rivoluzione dell’intelligenza artificiale salirà del 160% entro il 2030; serviranno circa 200 terawattora ogni anno solo per i consumi aggiuntivi dovuti all’intelligenza artificiale.

Per fare un paragone, il consumo annuo svizzero complessivo di energia elettrica è stato di 56 terawattora [Admin.ch]. In parole povere: solo per gestire l’intelligenza artificiale servirà un’energia pari a quasi quattro volte quella consumata da tutta la Confederazione.

Questi data center attualmente sono responsabili di circa il 2% di tutti i consumi di energia elettrica, ma entro la fine del decennio probabilmente consumeranno dal 3 al 4%, raddoppiando le loro emissioni di CO2. Goldman Sachs segnala che negli Stati Uniti saranno necessari investimenti per circa 50 miliardi di dollari per aggiungere capacità di produzione di energia per far fronte all’appetito energetico dei data center.

In Europa, sempre secondo l’analisi di Goldman Sachs, la crescente elettrificazione delle attività e l’espansione dei data center potrebbero far crescere il fabbisogno energetico del 40% o più entro il 2033. Entro il 2030, si prevede che la fame di energia di questi data center sarà pari all’intero consumo annuale di Portogallo, Grecia e Paesi Bassi messi insieme. Per stare al passo, la rete elettrica europea avrà bisogno di investimenti per circa 1,6 miliardi di euro nel corso dei prossimi anni.

Queste sono le stime e le previsioni degli esperti, ma ci sono già dei dati molto concreti su cui ragionare. Google e Microsoft hanno pubblicato due confessioni energetiche discrete, poco pubblicizzate, ma molto importanti.

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Ai primi di luglio 2024, Google ha messo online il suo nuovo rapporto sulla sostenibilità delle proprie attività. A pagina 31 di questo rapporto si legge un dato molto significativo: l’anno scorso le sue emissioni di gas serra sono aumentate del 48% rispetto al 2019 principalmente a causa degli aumenti dei consumi di energia dei data center e delle emissioni della catena di approvvigionamento”, scrive il rapporto, aggiungendo che “man mano che integriamo ulteriormente l’IA nei nostri prodotti, ridurre le emissioni potrebbe essere impegnativo a causa dei crescenti fabbisogni energetici dovuti alla maggiore intensità dei calcoli legati all’IA” [“In 2023, our total GHG emissions were 14.3 million tCO2e, representing a 13% year-over-year increase and a 48% increase compared to our 2019 target base year. [...] As we further integrate AI into our products, reducing emissions may be challenging due to increasing energy demands from the greater intensity of AI compute, and the emissions associated with the expected increases in our technical infrastructure investment.”].

Fin dal 2007, Google aveva dichiarato ogni anno che stava mantenendo una cosiddetta carbon neutrality operativa, ossia stava compensando le proprie emissioni climalteranti in modo da avere un impatto climatico sostanzialmente nullo. Ma già nella versione 2023 di questo rapporto ha dichiarato invece che non è più così, anche se ambisce a tornare alla neutralità entro il 2030.

Anche Microsoft ammette che l’intelligenza artificiale sta pesando sui suoi sforzi di sostenibilità. Nel suo rapporto apposito, l’azienda scrive che le sue emissioni sono aumentate del 29% rispetto al 2020 a causa della costruzione di nuovi data center, concepiti e ottimizzati specificamente per il carico di lavoro dell’intelligenza artificiale.

E a proposito di costruzione di data center, Bloomberg fa notare che il loro numero è raddoppiato rispetto a nove anni fa: erano 3600 nel 2015, oggi sono oltre 7000, e il loro consumo stimato di energia elettrica equivale a quello di tutta l’Italia.

Distillando questa pioggia di numeri si ottiene un elisir molto amaro: l’attuale passione mondiale per l’uso onnipresente dell’intelligenza artificiale ha un costo energetico e un impatto ambientale poco visibili, ma molto reali, che vanno contro l’esigenza di contenere i consumi per ridurre gli effetti climatici. È facile vedere proteste molto vistose contro i voli in aereo, per esempio, e c’è una tendenza diffusa a rinunciare a volare come scelta di tutela dell’ambiente. Sarebbe ironico se poi chi fa questi gesti passasse la giornata a trastullarsi con ChatGPT perché non si rende conto di quanto consumo energetico ci stia dietro.

Per fare un paragone concreto e facile da ricordare, se quei 2,9 wattora necessari per una singola richiesta a ChatGPT venissero consumati attingendo alla batteria del vostro smartphone, invece che a qualche datacenter dall’altra parte del mondo, il vostro telefonino sarebbe completamente scarico dopo soltanto quattro domande. Se usaste delle normali batterie stilo, ne dovreste buttare via una ogni due domande.

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Ognuno di noi può fare la propria parte per contenere questo appetito energetico smisurato, semplicemente scegliendo di non usare servizi basati sull’intelligenza artificiale remota se non è strettamente indispensabile. Ma esiste anche un altro modo per usare l’intelligenza artificiale, che consuma molto, molto meno: si chiama tiny AI, ossia microintelligenza artificiale locale [locally hosted tiny AI].

Si tratta di software di IA che si installano e funzionano su computer molto meno potenti ed energivori di quelli usati dalle grandi aziende informatiche, o addirittura si installano sugli smartphone, e lavorano senza prosciugarne la batteria dopo quattro domande. Hanno nomi come Koala, Alpaca, Llama, H2O-Danube, e sono in grado di generare testi o tradurli, di rispondere a domande su vari temi, di automatizzare la scrittura di un documento, di trascrivere una registrazione o di riconoscere una persona, consumando molta meno energia delle intelligenze artificiali online.

Per esempio, una microintelligenza artificiale può essere installata a bordo di una telecamera di sorveglianza, su un componente elettronico che costa meno di un dollaro e ha un consumo energetico trascurabile: meno dell’energia necessaria per trasmettere la sua immagine a un datacenter remoto tramite la rete telefonica cellulare.

Nella tiny AI, l’elaborazione avviene localmente, sul dispositivo dell’utente, e quindi non ci sono problemi di privacy: i dati restano dove sono e non vengono affidati a nessuno. Bisogna però cambiare modo di pensare e di operare: per tornare all’esempio della telecamera, invece di inviare a qualche datacenter le immagini grezze ricevute dalla telecamera e farle elaborare per poi ricevere il risultato, la tiny AI le elabora sul posto, direttamente a bordo della telecamera, e non le manda a nessuno: se rileva qualcosa di interessante, trasmette al suo proprietario semplicemente l’avviso, non l’intera immagine, con un ulteriore risparmio energetico.

Non si tratta di alternative teoriche: queste microintelligenze sono già in uso, per esempio, negli occhiali smart dotati di riconoscimento vocale e riconoscimento delle immagini. Siccome devono funzionare sempre, anche quando non c’è connessione a Internet, e dispongono di spazi limitatissimi per le batterie, questi oggetti devono per forza di cose ricorrere a un’intelligenza ultracompatta e locale.

Ma allora perché le grandi aziende non usano questa soluzione dappertutto, invece di costruire immensi datacenter? Per due motivi principali. Il primo è tecnico: queste microintelligenze sono brave a fare una sola cosa ciascuna, mentre servizi come Google Gemini o ChatGPT sono in grado di rispondere a richieste di molti tipi differenti e più complesse, che hanno bisogno di attingere a immense quantità di dati. Ma le richieste tipiche fatte dagli utenti a un’intelligenza artificiale sono in gran parte semplici, e potrebbero benissimo essere gestite da una tiny AI. Troppo spesso, insomma, si impugna un martello per schiacciare una zanzara.

Il secondo motivo è poco tecnico e molto commerciale. Se gli utenti si attrezzano con una microintelligenza propria, che oltretutto spesso è gratuita da scaricare e installare, crolla tutto il modello di business attuale, basato sull’idea di convincerci che pagare un abbonamento mensile per avere servizi basati sull’intelligenza artificiale remota sia l’unico modello commerciale possibile.

La scelta, insomma, sta a noi: o diventare semplici cliccatori di app chiavi in mano, che consumano quantità esagerate di energia e creano una dipendenza molto redditizia per le aziende, oppure rimboccarsi un pochino le maniche informatiche e scoprire come attrezzarsi con un’intelligenza artificiale locale, personale, che fa quello che vogliamo noi e non va a raccontare a nessuno i nostri fatti personali. E come bonus non trascurabile, riduce anche il nostro impatto globale su questo fragile pianeta.



Fonti aggiuntive: Ultra-Efficient On-Device Object Detection on AI-Integrated Smart Glasses with TinyissimoYOLO, Arxiv.org, 2023; Tiny VLMs bring AI text plus image vision to the edge, TeachHQ.com, 2024; Tiny AI is the Future of AI, AIBusiness, 2024; The Surprising Rise of “Tiny AI”, Medium, 2024; I test AI chatbots for a living and these are the best ChatGPT alternatives, Tom’s Guide, 2024.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


ANTEPRIMA Podcast RSI - L’IA ha troppa fame di energia. Come metterla a dieta

29 de Agosto de 2024, 12:17, por Il Disinformatico
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ALLERTA SPOILER: Questo è il testo di accompagnamento al podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera che uscirà questo venerdì presso www.rsi.ch/ildisinformatico.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, Google Podcasts, Spotify e feed RSS.

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Una singola domanda a ChatGPT consuma grosso modo la stessa energia elettrica che serve per tenere accesa una lampadina comune per venti minuti e consuma dieci volte più energia di una ricerca in Google. La fame di energia dell’intelligenza artificiale online è sconfinata e preoccupante. Ma ci sono soluzioni che permettono di smorzarla.

Questa è la storia del crescente appetito energetico dei servizi online, dai social network alle intelligenze artificiali, del suo impatto ambientale e di come esiste un modo alternativo per offrire gli stessi servizi con molta meno energia e con molto più rispetto per la nostra privacy. Perché ogni documento, ogni foto, ogni testo che immettiamo in ChatGPT, Gemini, Copilot o altri servizi online di intelligenza artificiale viene archiviato, letto, catalogato, analizzato e schedato dalle grandi aziende del settore.

Benvenuti alla puntata del 30 agosto 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]

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Una recente indagine pubblicata da NPR, una rinomata organizzazione indipendente non profit che comprende un migliaio di stazioni radio statunitensi ed è stata fondata dal Congresso degli Stati Uniti, fa il punto della situazione sulla nuova fame di energia dovuta al boom delle intelligenze artificiali.

Quando usiamo un servizio online di intelligenza artificiale, come ChatGPT, Copilot o Gemini, per citare i più diffusi, i complessi calcoli necessari per elaborare e fornirci la risposta non avvengono sul nostro computer, tablet o telefonino, per cui non ci accorgiamo di quanta energia viene consumata per restituirci quella risposta. Il nostro dispositivo non fa altro che prendere la nostra richiesta, inoltrarla via Internet a questi servizi, e ricevere il risultato, facendocelo vedere o ascoltare.

Ma dietro le quinte, le intelligenze artificiali online devono disporre di grandi data center, ossia strutture nelle quali vengono radunati computer appositi, dotati di processori dedicati all’intelligenza artificiale, che hanno dei consumi energetici prodigiosi. Secondo una stima riportata da NPR, una singola richiesta a ChatGPT usa all’incirca la stessa quantità di energia elettrica necessaria per tenere accesa una normale lampadina per una ventina di minuti. Immaginate milioni di persone che interrogano ChatGPT tutto il giorno, e pensate a venti minuti di lampadina accesa per ogni domanda che fanno a questa intelligenza artificiale.

Secondo un’analisi pubblicata dalla banca d’affari Goldman Sachs a maggio 2024, una richiesta fatta a ChatGPT consuma 2,9 wattora di energia elettrica, quasi dieci volte di più di una normale richiesta di ricerca fatta a Google (0,3 wattora) senza interpellare i suoi servizi di intelligenza artificiale. Questa analisi stima che il fabbisogno energetico mondiale dei data center che alimentano la rivoluzione dell’intelligenza artificiale salirà del 160% entro il 2030; serviranno circa 200 terawattora ogni anno solo per i consumi aggiuntivi dovuti all’intelligenza artificiale.

Per fare un paragone, il consumo annuo svizzero complessivo di energia elettrica è stato di 56 terawattora (Admin.ch). In parole povere: solo per gestire l’intelligenza artificiale servirà un’energia pari a quasi quattro volte quella consumata da tutta la Confederazione.

Questi data center attualmente sono responsabili di circa il 2% di tutti i consumi di energia elettrica, ma entro la fine del decennio probabilmente consumeranno dal 3 al 4%, raddoppiando le loro emissioni di CO2. Goldman Sachs segnala che negli Stati Uniti saranno necessari investimenti per circa 50 miliardi di dollari per aggiungere capacità di produzione di energia per far fronte all’appetito energetico dei data center.

In Europa, sempre secondo l’analisi di Goldman Sachs, la crescente elettrificazione delle attività e l’espansione dei data center potrebbero far crescere il fabbisogno energetico del 40% o più entro il 2033. Entro il 2030, si prevede che la fame di energia di questi data center sarà pari all’intero consumo annuale di Portogallo, Grecia e Paesi Bassi messi insieme. Per stare al passo, la rete elettrica europea avrà bisogno di investimenti per circa 1,6 miliardi di euro nel corso dei prossimi anni.

Queste sono le stime e le previsioni degli esperti, ma ci sono già dei dati molto concreti su cui ragionare. Google e Microsoft hanno pubblicato due confessioni energetiche discrete, poco pubblicizzate, ma molto importanti.

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Ai primi di luglio 2024, Google ha messo online il suo nuovo rapporto sulla sostenibilità delle proprie attività. A pagina 31 di questo rapporto si legge un dato molto significativo: l’anno scorso le sue emissioni di gas serra sono aumentate del 48% rispetto al 2019principalmente a causa degli aumenti dei consumi di energia dei data center e delle emissioni della catena di approvvigionamento”, scrive il rapporto, aggiungendo che “man mano che integriamo ulteriormente l’IA nei nostri prodotti, ridurre le emissioni potrebbe essere impegnativo a causa dei crescenti fabbisogni energetici dovuti alla maggiore intensità dei calcoli legati all’IA” [“In 2023, our total GHG emissions were 14.3 million tCO2e, representing a 13% year-over-year increase and a 48% increase compared to our 2019 target base year. [...] As we further integrate AI into our products, reducing emissions may be challenging due to increasing energy demands from the greater intensity of AI compute, and the emissions associated with the expected increases in our technical infrastructure investment.”].

Fin dal 2007, Google aveva dichiarato ogni anno che stava mantenendo una cosiddetta carbon neutrality operativa, ossia stava compensando le proprie emissioni climalteranti in modo da avere un impatto climatico sostanzialmente nullo. Ma già nella versione 2023 di questo rapporto ha dichiarato invece che non è più così, anche se ambisce a tornare alla neutralità entro il 2030.

Anche Microsoft ammette che l’intelligenza artificiale sta pesando sui suoi sforzi di sostenibilità. Nel suo rapporto apposito, l’azienda scrive che le sue emissioni sono aumentate del 29% rispetto al 2020 a causa della costruzione di nuovi data center, concepiti e ottimizzati specificamente per il carico di lavoro dell’intelligenza artificiale.

E a proposito di costruzione di data center, Bloomberg fa notare che il loro numero è raddoppiato rispetto a nove anni fa: erano 3600 nel 2015, oggi sono oltre 7000, e il loro consumo stimato di energia elettrica equivale a quello di tutta l’Italia.

Distillando questa pioggia di numeri si ottiene un elisir molto amaro: l’attuale passione mondiale per l’uso onnipresente dell’intelligenza artificiale ha un costo energetico e un impatto ambientale poco visibili, ma molto reali, che vanno contro l’esigenza di contenere i consumi per ridurre gli effetti climatici. È facile vedere proteste molto vistose contro i voli in aereo, per esempio, e c’è una tendenza diffusa a rinunciare a volare come scelta di tutela dell’ambiente. Sarebbe ironico se poi chi fa questi gesti passasse la giornata a trastullarsi con ChatGPT perché non si rende conto di quanto consumo energetico ci stia dietro.

Per fare un paragone concreto e facile da ricordare, se quei 2,9 wattora necessari per una singola richiesta a ChatGPT venissero consumati attingendo alla batteria del vostro smartphone, invece che a qualche datacenter dall’altra parte del mondo, il vostro telefonino sarebbe completamente scarico dopo soltanto quattro domande. Se usaste delle normali batterie stilo, ne dovreste buttare via una ogni due domande.

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Ognuno di noi può fare la propria parte per contenere questo appetito energetico smisurato, semplicemente scegliendo di non usare servizi basati sull’intelligenza artificiale remota se non è strettamente indispensabile. Ma esiste anche un altro modo per usare l’intelligenza artificiale, che consuma molto, molto meno: si chiama tiny AI, ossia microintelligenza artificiale locale [locally hosted tiny AI].

Si tratta di software di IA che si installano e funzionano su computer molto meno potenti ed energivori di quelli usati dalle grandi aziende informatiche, o addirittura si installano sugli smartphone, e lavorano senza prosciugarne la batteria dopo quattro domande. Hanno nomi come Koala, Alpaca, Llama, H2O-Danube, e sono in grado di generare testi o tradurli, di rispondere a domande su vari temi, di automatizzare la scrittura di un documento, di trascrivere una registrazione o di riconoscere una persona, consumando molta meno energia delle intelligenze artificiali online.

Per esempio, una microintelligenza artificiale può essere installata a bordo di una telecamera di sorveglianza, su un componente elettronico che costa meno di un dollaro, e ha un consumo energetico trascurabile: meno dell’energia necessaria per trasmettere la sua immagine a un datacenter remoto tramite la rete telefonica cellulare.

Nella tiny AI, l’elaborazione avviene localmente, sul dispositivo dell’utente, e quindi non ci sono problemi di privacy: i dati restano dove sono e non vengono affidati a nessuno. Bisogna però cambiare modo di pensare e di operare: per tornare all’esempio della telecamera, invece di inviare a qualche datacenter le immagini grezze ricevute dalla telecamera e farle elaborare per poi ricevere il risultato, la tiny AI le elabora sul posto, direttamente a bordo della telecamera, e non le manda a nessuno: se rileva qualcosa di interessante, trasmette al suo proprietario semplicemente l’avviso, non l’intera immagine, con un ulteriore risparmio energetico.

Non si tratta di alternative teoriche: queste microintelligenze sono già in uso per esempio negli occhiali smart dotati di riconoscimento vocale e riconoscimento delle immagini. Siccome devono funzionare sempre, anche quando non c’è connessione a Internet, e dispongono di spazi limitatissimi per le batterie, questi oggetti devono per forza di cose ricorrere a un’intelligenza ultracompatta e locale.

Ma allora perché le grandi aziende non usano questa soluzione dappertutto, invece di costruire immensi datacenter? Per due motivi principali. Il primo è tecnico: queste microintelligenze sono brave a fare una sola cosa ciascuna, mentre servizi come Google Gemini o ChatGPT sono in grado di rispondere a richieste di molti tipi differenti e più complesse, che hanno bisogno di attingere a immense quantità di dati. Ma le richieste tipiche fatte dagli utenti a un’intelligenza artificiale sono in gran parte semplici, e potrebbero benissimo essere gestite da una tiny AI. Troppo spesso, insomma, si impugna un martello per schiacciare una zanzara.

Il secondo motivo è poco tecnico e molto commerciale. Se gli utenti si attrezzano con una microintelligenza propria, che oltretutto spesso è gratuita da scaricare e installare, crolla tutto il modello di business attuale, basato sull’idea di convincerci che pagare un abbonamento mensile per avere servizi basati sull’intelligenza artificiale remota sia l’unico modello commerciale possibile.

La scelta, insomma, sta a noi: o diventare semplici cliccatori di app chiavi in mano, che consumano quantità esagerate di energia e creano una dipendenza molto redditizia per le aziende, oppure rimboccarsi un pochino le maniche informatiche e scoprire come attrezzarsi con un’intelligenza artificiale locale, personale, che fa quello che vogliamo noi e non va a raccontare a nessuno i nostri fatti personali. E come bonus non trascurabile, riduce anche il nostro impatto globale su questo fragile pianeta.



Fonti aggiuntive: Ultra-Efficient On-Device Object Detection on AI-Integrated Smart Glasses with TinyissimoYOLO, Arxiv.org, 2023; Tiny VLMs bring AI text plus image vision to the edge, TeachHQ.com, 2024; Tiny AI is the Future of AI, AIBusiness, 2024; The Surprising Rise of “Tiny AI”, Medium, 2024; I test AI chatbots for a living and these are the best ChatGPT alternatives, Tom’s Guide, 2024.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


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