Ir para o conteúdo

Blogoosfero verdebiancorosso

Tela cheia Sugerir um artigo

Disinformatico

4 de Setembro de 2012, 21:00 , por profy Giac ;-) - | No one following this article yet.
Blog di "Il Disinformatico"

Podcast RSI - Interfacce touch per auto, 40 anni di seduzione pericolosa

2 de Agosto de 2024, 4:47, por Il Disinformatico
logo del Disinformatico

È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate qui sul sito della RSI (si apre in una finestra/scheda separata) e lo potete scaricare qui.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, Google Podcasts, Spotify e feed RSS.

---

[CLIP: Rumore di auto elettrica che parte da ferma e accelera]

Le automobili di oggi sono dei computer su ruote, hanno un numero sempre maggiore di funzioni e servizi, e si pone il problema di come permettere al conducente di gestire tutta questa complessità. Per usare il gergo informatico, è necessario adeguare la cosiddetta interfaccia utente.

La soluzione sempre più diffusa è uno schermo tattile, che sostituisce le levette e i pulsanti fisici, ma ci sono anche i comandi capacitivi, ossia finti pulsanti che si azionano semplicemente sfiorandoli e non si muovono fisicamente.

Eppure la sensazione di molte persone che guidano questi veicoli è che le interfacce touch, una volta passato l’effetto wow e superato l’impatto estetico seducente, siano scomode e in alcuni casi addirittura pericolose. Cominciano a essere pubblicate anche delle ricerche tecniche che sembrano confermare questa sensazione. Ma allora perché quasi tutti i costruttori di automobili insistono a usare questo tipo di interfaccia?

Questa è la storia delle interfacce touch nelle automobili. Una storia che comincia, sorprendentemente, nel 1986, quasi quarant’anni fa, e che rivela il lungo flirt dell’industria automobilistica con una tecnologia in apparenza avveniristica ma in realtà perlomeno controversa. Un flirt nel quale la persona più importante, cioè il conducente, finisce spesso per trovarsi nel ruolo del terzo incomodo che deve fare buon viso a cattivo gioco.

Benvenuti alla puntata del 2 agosto 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]

----

Se qualcuno nomina il concetto di interfaccia touch per le auto, o in altre parole parla di automobili che si comandano in gran parte non con dei pulsanti, delle manopole o delle levette fisiche ma usando uno schermo interattivo e sensibile al tocco, il pensiero corre facilmente a una marca ben precisa: Tesla. Le sue auto, esclusivamente elettriche, sono famose per i loro schermi giganti incastonati nel cruscotto, da usare per comandarne le mille funzioni offerte dal software di bordo.

Ma in realtà la prima interfaccia touch, ossia il primo schermo sensibile al tocco presente in un’automobile risale a molto prima della nascita del marchio Tesla: risale addirittura al 1986. In quell’anno la casa automobilistica statunitense Buick presentò il Graphic Control Center, uno schermo tattile da nove pollici, incastonato nel cruscotto della sua coupé Riviera di settima generazione. Era un monitor a tubo catodico, monocromatico, con caratteri verdi su sfondo nero, e a detta della casa costruttrice riuniva in un unico elemento ben 91 funzioni che altrimenti avrebbero richiesto pulsanti, selettori, interruttori e manopole sul cruscotto. Da questo schermo sensibile al tatto si comandavano per esempio l’aria condizionata, l’autoradio, i sistemi diagnostici e si monitoravano i consumi di carburante.

Fu un fiasco, perché i conducenti si lamentarono che usare lo schermo tattile era scomodo e li distraeva troppo dalla guida, obbligandoli a togliere gli occhi dalla strada molto di più di quanto facessero quei comandi fisici che il monitor tattile aveva sostituito. Buick non installò più questo sistema touch, e l’idea delle interfacce tattili rimase parcheggiata con le quattro frecce per circa vent’anni.

Nel 2001 arrivò infatti BMW, che introdusse iDrive, un’interfaccia di gestione incentrata su uno schermo da quasi 9 pollici di diagonale, finalmente piatto e non a tubo catodico ma a LCD, che sostituiva tutta la pulsantiera del sistema di intrattenimento di bordo. Non era comandabile toccandolo: la persona alla guida vi interagiva tramite una manopola fisica che permetteva di esplorare i suoi vari menu e sottomenu.

Gli schermi nei cruscotti cominciarono man mano a diffondersi, ma solo come coprotagonisti di un pannello comandi che restava affollato di bottoni. Tesla arrivò con la sua interfaccia touch soltanto nel 2012, ma lo fece col botto, piazzando al centro del cruscotto della sua prima berlina, la Model S, un monumentale schermo tattile da ben 17 pollici, ed eliminando quasi completamente i pulsanti fisici. Praticamente tutte le funzioni dell’auto, comprese quelle importanti per la sicurezza di guida come l’accensione dei fendinebbia, passavano da quello schermo, con un effetto avveniristico che fece immediatamente presa nell’opinione pubblica. E la tendenza di questa marca al minimalismo dei pulsanti è proseguita con i modelli successivi. Nelle Tesla più recenti, anche la direzione delle bocchette di ventilazione si comanda dallo schermo touch, è scomparso il quadrante degli strumenti, quello che stava dietro il volante, e sono sparite anche le levette per azionare le frecce, sostituite da tasti capacitivi, ossia delle superfici a sfioramento integrate nelle razze del volante. Anche le marce si selezionano toccando lo schermo oppure dei tasti capacitivi inseriti in modo quasi invisible nella plafoniera.

Ora moltissimi costruttori di automobili mettono un grande schermo tattile al centro dei loro cruscotti: è la moda di design del momento, perché fa colpo sul cliente, elimina tantissimi anfratti che attirano antiestetica polvere, ma soprattutto fa risparmiare tanti soldi al costruttore, che si trova ad avere meno componenti e sottocomponenti da montare durante la fabbricazione, quindi meno costi di manodopera, e non deve gestire una selva di pulsanti, cavi, levette e relativi ricambi da tenere a magazzino per anni. Inoltre consente di aggiungere nuove funzioni con un semplice aggiornamento software, senza dover installare pulsanti extra o dover rifare gli stampi e le procedure di assemblaggio per offrire un cruscotto modificato.

Il caso forse più estremo è quello di Mercedes, che nella sua EQS offre in opzione il cosiddetto Hyperscreen, uno schermo largo 56 pollici, circa un metro e mezzo, composto da tre pannelli da 12 pollici e da uno da quasi 18 pollici.

Ma non è un po’ troppo tutto questo?

----

Euro NCAP, una delle più prestigiose organizzazioni europee per la sicurezza automobilistica, sostenuta dall’Unione Europea e da numerosi ministeri nazionali dei trasporti, ha annunciato a marzo del 2024 che i suoi nuovi test di sicurezza, previsti per il 2026, incoraggeranno le case automobilistiche a usare “comandi fisici e separati per le funzioni di base in maniera intuitiva per limitare il tempo trascorso con gli occhi distolti dalla strada e quindi promuovere una guida più sicura”. Inoltre ha dichiarato che “l’uso eccessivo degli schermi tattili è un problema che tocca l’intero settore” perché “obbliga i conducenti a spostare lo sguardo dalla strada e aumenta il rischio di incidenti dovuti alla distrazione” [Interesting Engineering].

Già nel 2022 una rivista di settore svedese aveva dimostrato che i pulsanti fisici sono solitamente più sicuri degli schermi tattili. Lo aveva fatto misurando il tempo di spostamento dello sguardo necessario per compiere quattro compiti relativamente semplici. Su una Volvo V70 del 2005, dotata solo di pulsanti, il tempo complessivo era stato di dieci secondi. Sulla BMW iX, basata su uno schermo touch, le stesse operazioni avevano richiesto il triplo del tempo, trenta secondi, e su una MG Marvel R erano serviti addirittura 45 secondi di distrazione.

Anche senza arrivare al rigore di un test come questo, è abbastanza intuitivo che se ci si trova improvvisamente in un banco di nebbia è molto più sicuro avere un pulsante per accendere i fendinebbia, un pulsante che si può trovare e premere senza togliere lo sguardo dalla strada in un momento critico del genere, che avere una zona specifica dello schermo che bisogna toccare per attivare un menu dal quale bisogna poi scegliere l’icona giusta e centrarla con il dito, senza nessun riscontro fisico di averla toccata correttamente.

Va detto che pulsanti e interfacce fisiche non sono automaticamente una garanzia di sicurezza. Come gli informatici e i piloti collaudatori ben sanno, qualunque interfaccia può causare confusione, distrazione e disastri anche fatali se non è pensata bene. Un caso tristemente noto in campo automobilistico è quello della leva del cambio della Fiat Chrysler Grand Cherokee del 2015. Una leva tangibile, impugnabile, che però era stata concepita in modo da non mantenere fisicamente una posizione differente a seconda della marcia inserita. Tornava sempre alla posizione centrale, lasciando come unica indicazione del suo stato una piccola spia luminosa.

Molti conducenti erano scesi dall’auto pensando di averla messa in Park quando in realtà era ancora in Drive o in folle o addirittura in retromarcia, col risultato che l’auto si muoveva da sola. Alla fine, dopo almeno 41 casi di ferimento legati a questa interfaccia, Fiat Chrysler era stata costretta a richiamarne oltre un milione di esemplari. Questo errore di progettazione dell’interfaccia è fra le probabili cause della morte nel 2016 dell’attore di Star Trek Anton Yelchin, schiacciato contro un cancello di sicurezza dalla propria Grand Cherokee lasciata inavvertitamente in folle in pendenza.

Non è solo una questione di schermi tattili al posto dei pulsanti: anche la recente moda di adottare comandi capacitivi a sfioramento ha i suoi problemi di interfaccia. Alcuni proprietari di auto Volkswagen affermano infatti che questi pseudo-pulsanti, presenti sul volante, causano incidenti.

Siccome si tratta di superfici estremamente sensibili al tocco, basta sfiorarle inavvertitamente, magari durante una manovra di parcheggio, per dare i comandi corrispondenti. Finché si alza per errore il volume dell’autoradio non è un problema grave, ma se si riattiva involontariamente il cruise control o tempomat, i cui comandi sono sulle razze del volante, l’auto accelera di colpo e a sorpresa. Le segnalazioni di incidenti di questo genere si stanno accumulando nei forum online [Ars Technica], ma per ora manca un’inchiesta formale, per cui sono dati da prendere con un pizzico di cautela. In ogni caso Volkswagen ha deciso di non attendere test formali e ha annunciato sin da ottobre 2022 che ripristinerà i pulsanti fisici veri e propri sul volante, scrivendo che “è quello che ci chiedono i clienti”.

Insomma, se vi lamentate che le interfacce touch di oggi non vi vanno a genio, non siete soli e non siete diventati brontoloni che non sanno stare al passo con i tempi. Il problema è molto concreto e diffuso, tanto che esistono aziende che vendono pulsantiere Bluetooth per ridare agli utenti dei bottoni da pigiare almeno per le funzioni più frequenti che sarebbero invece accessibili soltanto toccando uno schermo.

Il minimalismo è una scelta di design valida nell’informatica di consumo, dove l’estetica può essere privilegiata tranquillamente rispetto alla velocità e alla intuitività d’uso, ma i dati indicano che non è affatto una scelta altrettanto valida nella sicurezza stradale, anche se per molti costruttori di automobili il ritorno alle interfacce utente fisiche, con i relativi costi e le associate complessità di fabbricazione, è letteralmente un tasto che non vogliono toccare.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Podcast RSI - CrowdStrike, cronaca e cause di un collasso mondiale

26 de Julho de 2024, 6:11, por Il Disinformatico
logo del Disinformatico

È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate qui sul sito della RSI (si apre in una finestra/scheda separata) e lo potete scaricare qui.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, Google Podcasts, Spotify e feed RSS.

Buon ascolto, e se vi interessano il testo di accompagnamento e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.

---

Titolo podcast: CrowdStrike, cronaca e cause di un collasso mondiale

[CLIP: inizio del TG serale RSI del 19 luglio 2024]

Questa storia inizia il 19 luglio 2024, un venerdì, precisamente alle 6 e 9 minuti del mattino, ora dell’Europa centrale. In quel momento una società di sicurezza informatica sconosciuta al grande pubblico diffonde ai propri clienti un aggiornamento molto piccolo, solo 40 kilobyte, meno di una singola foto di gattini [CLIP: voce di Trilli, la gatta dei vicini che abita con noi], che però manda in tilt circa 8 milioni e mezzo di computer Windows che lo ricevono e lo installano.

Sono computer che gestiscono banche, borse, ospedali, aeroporti, sistemi di pagamento, emittenti televisive e tanti altri servizi vitali. Non funziona praticamente più niente: non si vola, non si opera, si paga solo in contanti, ammesso di averli in una società sempre più cashless e contactless. Quel venerdì diventa uno dei più grossi collassi informatici mondiali di sempre, una sorta di Millennium Bug arrivato con 24 anni di ritardo.

Questa è la storia di come un singolo aggiornamento di un unico software ha mandato in tilt i sistemi informatici di mezzo mondo. Una storia che si può raccontare per bene, ora che la nebbia informativa delle prime ore si è diradata ed è stato pubblicato il rapporto tecnico sull’incidente, mentre i tecnici stanno ancora lavorando freneticamente per rimettere in funzione i propri computer e i criminali informatici approfittano del caos per colpire. Ma è anche la storia di chi si è scoperto immune al caos e di cosa si può fare per evitare che uno sconquasso del genere accada di nuovo.

Benvenuti alla puntata del 26 luglio 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]

----

C’è una vignetta che ogni informatico conosce bene, pubblicata nel 2020 da Randall Munroe sul suo sito Xkcd.com. Raffigura una catasta pericolante di vari blocchi di dimensioni differenti, etichettata come “tutta l’infrastruttura digitale moderna”. Questa catasta poggia su due soli fragili punti d’appoggio, uno dei quali è un esile blocchetto, descritto come “un progetto che una persona a caso nel Nebraska gestisce dal 2003 senza neppure un grazie”. È una rappresentazione molto azzeccata di come si reggono molti dei sistemi informatici dai quali dipendiamo: stanno in piedi per miracolo e perché non tira il vento.

Al posto della persona a caso nel Nebraska, venerdì scorso c’era un’azienda del Texas, CrowdStrike, che ha circa ottomila dipendenti e un fatturato di circa 100 milioni di dollari l’anno e fornisce servizi di sicurezza informatica a gran parte delle società più importanti del pianeta, ma il risultato è stato praticamente lo stesso.

I fatti nudi e crudi pubblicati nel rapporto tecnico preliminare di CrowdStrike sull’incidente informatico planetario sono impietosi. L’azienda ha diffuso contemporaneamente a tutti i propri clienti un aggiornamento difettoso di un file di configurazione di un proprio prodotto di sicurezza, denominato Falcon, una sorta di super-antivirus destinato alle aziende.

Il difetto causava il crash dei computer Windows sui quali veniva installato, producendo una vistosissima schermata blu di errore che ha indotto molti a pensare che il guasto planetario fosse stato causato da un malfunzionamento di Windows, anche perché chi usa sistemi operativi diversi da Windows, come macOS, Unix o Linux, ha continuato a lavorare indisturbato.

Una serie di schermate blu (BSOD, blue screen of death) causate dall’aggiornamento di CrowdStrike all’aeroposto di LaGuardia, New York. Credit: By Smishra1 - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=150535443.

Ma Microsoft in questo caso non c’entra. Infatti i tanti utenti privati di Windows e le tante piccole e medie imprese che usano Windows ma non adoperano CrowdStrike per la propria difesa contro gli attacchi informatici hanno continuato a lavorare come al solito.

CrowdStrike si è accorta del problema e ha smesso di diffondere l’aggiornamento difettoso un’ora e mezza dopo l’inizio della sua disseminazione, ma nel frattempo quell’aggiornamento aveva causato il crash di circa otto milioni e mezzo di computer nelle principali aziende del pianeta, secondo le stime di Microsoft.

Il problema è che questo tipo di crash non è risolvibile semplicemente riavviando il computer, come si fa di solito. Al riavvio, infatti, Windows carica di nuovo l’aggiornamento difettoso e va di nuovo in crash. Per uscire da questo circolo vizioso è necessario ricorrere a interventi manuali piuttosto complicati, che vanno fatti per ogni singolo computer colpito e spesso vanno fatti dando istruzioni a persone che non sono esperte ma sono le uniche che hanno fisicamente accesso ai computer in crisi.

Nei giorni successivi, Microsoft ha rilasciato uno strumento di recupero che semplifica leggermente il ripristino del funzionamento dei computer colpiti, ma comporta comunque la creazione di una chiavetta USB di avvio e l’esecuzione di una serie di istruzioni ben precise, e non è usabile sui computer nei quali le porte USB sono state bloccate o disabilitate per sicurezza e sui computer i cui dischi rigidi sono protetti dalla crittografia di Microsoft, denominata BitLocker, o da quella di altri prodotti analoghi. In questo caso, infatti, serve anche un codice di sblocco della crittografia.

In altre parole, i computer più difficili da rimettere in funzione sono proprio quelli più protetti, che sono tipicamente quelli installati in ruoli essenziali. Per gli addetti alla manutenzione dei sistemi informatici aziendali è stato un bagno di sangue, anche perché molto spesso i codici di sblocco sono custoditi per praticità... su altri computer Windows. E quei computer, essendo essenziali per la sicurezza aziendale, sono fra quelli che scaricano e installano immediatamente gli aggiornamenti di sicurezza e quindi sono anche loro in crash e inaccessibili [The Register].

È un po' come restare chiusi fuori casa perché si è rotta la chiave della porta d’ingresso e scoprire che la chiave di scorta, quella che abbiamo messo da parte per casi come questo, è dentro un cassetto chiuso a chiave. E la chiave di quel cassetto è in casa.

----

Mentre gli amministratori dei sistemi informatici colpiti ingeriscono dosi epiche di caffè e vedono sfumare il weekend e magari anche le ferie, la domanda che tanti si pongono è come possa accadere un disastro globale del genere e come si possa evitare che accada di nuovo.

La risposta è che CrowdStrike è quasi monopolista nel suo settore, e quindi un suo sbaglio ha effetti enormi su aziende che stanno al centro dell’economia mondiale. Servirebbe una diversificazione dei fornitori di sicurezza, e magari anche dei sistemi operativi, ma non c’è, e nessuno sembra interessato a richiederla.

Inoltre lo sbaglio in questione è avvenuto perché l’aggiornamento difettoso ha superato i controlli di sicurezza dell’azienda, come risulta dal rapporto tecnico preliminare. E li ha superati in ben due occasioni: la prima durante i controlli prima del rilascio, perché il software adibito al controllo, chiamato Content Validator, era a sua volta difettoso, e la seconda perché il software di CrowdStrike che riceveva l’aggiornamento, il cosiddetto Content Interpreter, non era in grado di gestire l’errore internamente e lo rifilava al sistema operativo, cioè Windows, che puntualmente andava in crash.

Questa sinfonia di errori ha poi trovato il suo gran finale nella scelta scellerata di diffondere l’aggiornamento a tutti i clienti contemporaneamente, che salvo emergenze assolute è una delle cose fondamentali da non fare assolutamente quando si aggiorna qualunque prodotto.

Come al solito, insomma, il disastro non è stato causato da un singolo difetto, ma da una catena di difetti, tutti piuttosto evidenti e prevedibili, e di eccessi di fiducia collettivi. Una catena che non ci si aspetta da un’azienda del calibro di CrowdStrike, che pure aveva una buona reputazione tra gli addetti ai lavori, avendo contribuito per esempio alle indagini sull’attacco nordcoreano alla Sony del 2014 e a quelle sulle fughe di dati ai danni del Partito Democratico statunitense nel 2015 e nel 2016.

I rimedi annunciati da CrowdStrike sono allineati con queste cause: il CEO dell’azienda, George Kurtz (ricordate questo nome), si è scusato profondamente per l’accaduto, e CrowdStrike dice che migliorerà i test interni da effettuare prima del rilascio dei suoi aggiornamenti e che adotterà la prassi dello staggered deployment, ossia del rilascio scaglionato, distribuendo gli aggiornamenti inizialmente a un gruppo di utenti ristretto per poi diffonderlo al resto della clientela solo dopo aver verificato che il gruppo ristretto non sta avendo malfunzionamenti. Inoltre darà alle aziende clienti la possibilità di selezionare quando e su quali loro computer vengono installati gli aggiornamenti.

Se state pensando che questi sono rimedi ovvi, che sarebbe stato opportuno adottare prima di causare un caos planetario, non siete i soli. Crowdstrike non è stata colpita dalla sfortuna di un evento improbabile, ma dalla concatenazione di malfunzionamenti perfettamente prevedibili. Ma come al solito, i soldi e la determinazione necessari per fare le cose per bene diventano sempre disponibili soltanto dopo che è successo il disastro evitabile.

E questa, purtroppo, è una prassi diffusa in moltissime aziende, non solo nel settore informatico. La domanda da porsi, forse, non è come mai sia successo questo incidente, ma come mai non ne succedano in continuazione, perché l’infrastruttura informatica mondiale è incredibilmente interdipendente e fragile. Per tornare a quella vignetta di Xkcd, l’informatica sta in piedi grazie a tanti omini del Nebraska che lavorano senza neppure un grazie. Perché finché le cose funzionano, la sicurezza e la qualità sono viste solo come un costo che disturba i profitti degli azionisti, e quando non funzionano è colpa degli amministratori dei sistemi informatici, fa niente se sono costretti a lavorare senza budget e senza personale.

Se siete uno o una di questi amministratori e state annuendo disperatamente perché vi riconoscete in questa descrizione, sappiate che non siete i soli, e che qualcuno, perlomeno, riconosce e apprezza il vostro lavoro. Grazie per le vostre notti insonni.

----

Intanto, però, c’è un altro gruppo di persone che ha reagito prontissimamente al caos informatico causato da CrowdStrike: i criminali informatici. Come avviene sempre in occasione di notizie che possono creare agitazione, confusione e panico, i malviventi ne hanno approfittato per tentare di mettere a segno i loro attacchi.

La società di sicurezza informatica Intego segnala infatti che il giorno stesso del collasso è iniziata la diffusione su Internet di falsi software di protezione, spacciati come rimedi preventivi da installare per evitare il blocco dei computer. Si tratta in realtà di malware, ossia di applicazioni infettanti, con nomi come Crowdstrike hotfix e simili. E i criminali informatici stanno ricorrendo a mail, SMS e anche telefonate per convincere le persone a installare questi falsi rimedi.

Se ricevete inviti a installare software di questo tipo, o se andate su Internet a cercare rimedi al problema di CrowdStrike, diffidate di qualunque fonte non verificata o verificabile e attenetevi soltanto alle istruzioni di Microsoft o di CrowdStrike pubblicate sui loro siti. E ricordate che questo problema non riguarda tutti gli utenti di Windows, come molti media generalisti hanno fatto pensare, ma solo le aziende che hanno installato CrowdStrike, per cui è molto probabile che non abbiate alcun bisogno di aggiornamenti di nessun genere per proteggervi da questa situazione.

E per finire, una chicca: nel 2010 ci fu un incidente analogo a questo, quando un aggiornamento difettoso del software di sicurezza di McAfee fece crollare gran parte di Internet, cancellando per errore i file di sistema dei computer Windows XP che usavano il software di McAfee. All’epoca, il responsabile in capo della sicurezza di McAfee era George Kurtz. Quello che oggi è CEO di CrowdStrike.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Due parole sul caos informatico mondiale di ieri

20 de Julho de 2024, 19:33, por Il Disinformatico

Ne hanno parlato già tutti e io non ho molto da aggiungere sulla base delle informazioni tecniche rese pubbliche fin qui. Vorrei solo sottolineare che la colpa primaria, qui, non è di Microsoft, come hanno fatto sembrare molti dei servizi giornalistici sulla vicenda, ma di CrowdStrike, la società di sicurezza informatica che ha realizzato maldestramente e rilasciato incautamente l’aggiornamento del suo software che ha paralizzato i computer che usano Windows e i servizi di sicurezza di CrowdStrike.

Non ha senso che un aggiornamento di un software così vitale sia stato distribuito in massa a tutto il mondo pressoché contemporaneamente, invece di testarlo fornendolo a un gruppo ristretto di clienti che accettano di fare da tester e poi distribuirlo a tutti. Questo è l’errore principale, a mio avviso, e non capisco perché sia stato commesso. Può darsi che ci sia stato qualche aspetto di urgenza particolare di cui non sono a conoscenza.

La colpa secondaria è degli amministratori dei sistemi informatici e dei dirigenti che troppo spesso impongono a loro software e ambienti operativi inadatti e forniscono risorse insufficienti per fare bene il loro lavoro, fregandosene della ridondanza e dei piani di disaster management

Più in generale, c’è un problema di monocultura e di eccessiva interdipendenza. Monocultura nel senso che è pericoloso che oltre la metà delle principali aziende mondiali usi lo stesso software, qualunque esso sia, perché se per caso quel software risulta danneggiato o vulnerabile gli effetti sono globali (come si è visto). Eccessiva interdipendenza nel senso che avere i dati nel cloud è comodo, avere un controllo centralizzato dei dati è comodo, e tutto questo riduce i costi, ma significa anche che le singole filiali dipendono totalmente dalla possibilità di collegarsi ai sistemi centrali, persino per le cose più banali. E questo è un problema di architettura software ma anche di mentalità aziendale, che aspira al controllo e non riesce a delegare.

I risultati di queste scelte si sono visti ampiamente in questo sconquasso planetario. Avete voluto mettere tutto nel cloud? Avete voluto mettere tutto su macchine con un unico sistema operativo? Ve l’avevamo detto che farlo senza un Piano B era da incoscienti. 

Ma tanto sono gli utenti a pagare e penare per i disservizi, e sono gli amministratori di sistema a dover impazzire per ripristinare, spesso uno per uno, tutti i computer che ora sfoggiano uno Schermo Blu della Morte. Mentre le aziende che hanno causato tutto questo la passeranno liscia, perché il contratto probabilmente prevede delle clausole di esenzione da responsabilità e soprattutto perché tanto il costo operativo di migrare a un prodotto concorrente è troppo elevato per le aziende clienti e quindi tutti continueranno a usare CrowdStrike esattamente come prima. 


Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Podcast RSI - Svizzera, allarme per la falsa app governativa AGOV: è un malware che ruba dati, fatto per colpire i Mac

18 de Julho de 2024, 22:14, por Il Disinformatico
logo del Disinformatico

ALLERTA SPOILER: Questo è il testo di accompagnamento al podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera che uscirà questo venerdì presso www.rsi.ch/ildisinformatico.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, Google Podcasts, Spotify e feed RSS.

---

[CLIP: L’inizio di uno degli spot classici “Get a Mac...” (2006-2009): quello che parla di virus per Windows e si vanta dell’immunità del Mac. La musica dello spot si intitola Having Trouble Sneezing ed è di Mark Mothersbaugh dei Devo]

Ben ritrovati dopo la breve pausa estiva di questo podcast! Riparto subito con un mito informatico da smontare, e da smontare in fretta, perché sta contribuendo al successo di una campagna di attacchi informatici che stanno prendendo di mira specificamente la Svizzera ma si stanno estendendo anche ad altri paesi.

Il mito è che i Mac siano immuni ai virus. Non è così, ma molti continuano a crederlo e si infettano scaricando app create appositamente dai criminali informatici. Se poi a questo mito si aggiunge il fatto che queste app infettanti fingono di essere applicazioni ufficiali governative, il successo della trappola è quasi inevitabile.

Questa è la storia di Poseidon, un malware per Mac, un’applicazione ostile che ruba i dati e le credenziali degli utenti di computer Apple spacciandosi per AGOV, un’applicazione di accesso ai servizi della Confederazione e delle autorità cantonali e comunali, per esempio per la compilazione e l’invio della dichiarazione d’imposta, ed è anche la storia di questo mito duro da estirpare della presunta invulnerabilità dei Mac.

Benvenuti alla puntata del 19 luglio 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]

Se nei giorni avete ricevuto una mail apparentemente firmata dall’Amministrazione federale svizzera e avete seguito il suo consiglio di scaricare e installare sul vostro computer l’applicazione AGOV delle autorità nazionali, come è successo a moltissimi residenti nella Confederazione, il vostro Mac è quasi sicuramente infetto e i vostri dati personali sono quasi sicuramente stati rubati.

L’allarme è stato lanciato dall’Ufficio federale della cibersicurezza, UFCS, alla fine del mese scorso. Il 27 giugno, segnala l’UFCS, “criminali informatici hanno avviato un’importante campagna di «malspam» contro cittadini della Svizzera tedesca. E-mail apparentemente provenienti da AGOV infettano gli apparecchi degli utenti di macOS con un malware denominato «Poseidon Stealer».”

Breve spiegazione per chi non abita in Svizzera: AGOV è il sistema di accesso online ai servizi delle autorità svizzere. Si trova presso Agov.ch ed è disponibile anche come app per smartphone Apple e Android, ma non come applicazione per computer. Agov è insomma un nome di cui gli svizzeri si fidano. Un nome perfetto per carpire la fiducia degli utenti.

I criminali informatici di cui parla l’UFCS hanno acquisito un malware di tipo stealer, ossia che ruba dati e credenziali di accesso, e lo hanno rimarchiato, presentandolo appunto come software di AGOV per Mac.

Sì, avete capito bene: i criminali hanno comperato il virus informatico già fatto. Questo specifico virus va sotto il nome generico di Atomic MacOS Stealer (o AMOS per gli amici), ed è stato ribattezzato Poseidon: è in vendita via Telegram sotto forma di licenza d’uso mensile che costa 1000 dollari al mese, secondo le informazioni raccolte dalla società di sicurezza informatica Intego. Il crimine informatico è un’industria, non una brigata di dilettanti, e quindi si è organizzato con una rete di fornitori. Atomic Stealer, o Poseidon che dir si voglia, è quello che oggi si chiama malware as a service, cioè un servizio di produzione e fornitura di virus per computer, disponibile al miglior offerente.

Le organizzazioni criminali, in altre parole, comprano il malware chiavi in mano e poi lo personalizzano in base al paese che vogliono prendere di mira. Per disseminarlo usano varie tecniche: una delle preferite è comperare spazi pubblicitari su Google, pagandoli profumatamente per far apparire i loro annunci apparentemente innocui in cima ai risultati di ricerca degli utenti.

Ovviamente questi criminali informatici non si presentano agli agenti pubblicitari di Google dicendo “Salve, siamo criminali informatici”, ma usano aziende prestanome.

La gente, poi, cerca per esempio Agov scrivendolo in Google e vede un elenco di risultati fra i quali spiccano le pubblicità dei criminali, che fingono di offrire software per accedere ai servizi delle autorità nazionali. È quindi facile, anzi inevitabile, che molti utenti clicchino su queste pubblicità, che sono fra l’altro difficili da distinguere dai risultati di ricerca autentici. Cliccandoci su, gli utenti vengono portati a un sito gestito dai truffatori, che propone di scaricare il presunto software governativo, che in realtà è il malware travestito. E chi lo scarica e lo installa, si infetta. Anche se ha un Mac. Anzi, soprattutto se ha un Mac, perché questo malware è fatto apposta per colpire gli utenti dei computer Apple.

Il mito dell’invulnerabilità dei Mac ha radici lontane. Per anni, Apple ha pubblicizzato i propri computer scrivendo cose come “I Mac non prendono i virus per PC” oppure “un Mac non è attaccabile dalle migliaia di virus che appestano i computer basati su Windows”. Frasi che tecnicamente non sono sbagliate, ma sono ingannevoli per l’utente comune, che le interpreta facilmente come “i Mac non prendono virus”, dimenticando quella precisazione “per PC” che cambia tutto.

Normalmente, infatti, i virus vengono creati per uno specifico sistema operativo e funzionano solo su quello, per cui per esempio un virus per Android non funziona su un tablet o smartphone iOS e quindi anche un virus scritto per Mac non fa un baffo a un utente che adopera Windows. Ma i virus per Mac esistono eccome. Tant’è vero che a giugno del 2012, dopo la comparsa di una raffica di virus fatti su misura per i Mac, Apple tolse con discrezione dal proprio sito quelle frasi, sostituendole con altre parole ben più blande (Wired; Sophos).

Eppure il mito continua a persistere.

Conoscere la tecnica di disseminazione dei malware usata dai criminali permette di capire subito un trucco da usare per difendersi preventivamente: si tratta di un piccolo ma importante cambiamento di abitudini, ossia smettere di usare Google, o un altro motore di ricerca, per accedere ai siti.

Moltissimi utenti, infatti, per andare per esempio su Facebook non digitano facebook.com nella casella di navigazione e ricerca ma scrivono semplicemente facebook in Google e poi cliccano sul primo risultato proposto da Google, presumendo che sarà quello giusto. I criminali lo sanno, e creano pubblicità che compaiono quando l’utente digita solo parte del nome di un sito invece del nome intero. In questo modo, l’utente clicca sulla pubblicità, credendo che sia un risultato di ricerca, e viene portato al sito dei truffatori, dove potrà essere imbrogliato a puntino.

Il modo giusto per essere sicuri di visitare un sito autentico è scriverne il nome per intero, compreso il suffisso .com, .ch, .it o altro che sia nella casella di navigazione e ricerca. E se è un sito che si prevede di consultare spesso, conviene salvarlo nei Preferiti, così basterà un solo clic sulla sua icona per raggiungerlo di nuovo con certezza. Meglio ancora, se il sito offre un’app, conviene usare quell’app, specialmente per i siti che maneggiano soldi, come per esempio i negozi online e le banche.

Questa tecnica di scrivere il nome per intero invece di cliccare sul risultato proposto al primo posto da Google si applica anche a un’altra tecnica usata dai criminali per portarci sui loro siti trappola: i link ingannevoli nelle mail. I criminali responsabili dell’attacco che ha colpito gli utenti svizzeri hanno usato proprio questa modalità.

Secondo le informazioni pubblicate dall’autorità nazionale di sicurezza informatica Govcert.ch, questi criminali hanno usato il servizio di mail di Amazon (che i filtri antispam normalmente non bloccano) per inviare mail, apparentemente spedite dalle autorità federali, che avvisavano gli utenti che da luglio 2024 sarebbe diventato obbligatorio usare il software AGOV per computer per accedere ai servizi federali, cantonali e comunali. La mail conteneva un link al motore di ricerca Bing (del quale gli utenti si fidano), che portava a un sito che a sua volta portava automaticamente a un altro sito, con un nome che somigliava a quello giusto, come per esempio agov-access.net oppure agov-ch.com, che ospitava il malware e aveva una grafica molto simile a quella del sito autentico.

Una schermata tratta dal sito dei truffatori. Fonte: Govcert.ch.

Il malware venica presentato spacciandolo appunto per l’app AGOV per i Mac. Che, ripeto, in realtà non esiste.

Come al solito, insomma, l’attacco faceva leva sulla psicologia: i criminali hanno creato una situazione di stress per la vittima e le hanno messo fretta parlando di scadenze imminenti, e hanno creato un percorso rassicurante, che sembrava autorevole ma era in realtà pilotato dai malviventi.

A questi due ingredienti classici degli attacchi si è aggiunto il fatto che gli utenti Apple sono spesso convinti che i loro computer siano inattaccabili e quindi le loro difese mentali sono già abbassate in partenza.

Nel caso specifico di questo attacco, le autorità di sicurezza nazionali sono intervenute pubblicando avvisi e bollettini sui propri siti e anche sul sito Agov.ch, e pubblicando un’analisi tecnica molto approfondita [altre info sono su Abuse.ch]. Inoltre i siti che ospitavano il malware sono stati bloccati e disattivati. Ma è solo questione di tempo prima che i criminali ci riprovino. Sta a noi essere vigili e prudenti.

Se per caso siete stati coinvolti in questo attacco, l’UFCS vi raccomanda di eliminare immediatamente le e-mail che avete ricevuto e di fare una reinstallazione da zero del Mac se avete scaricato e installato il malware.

A tutto questo scenario di attacchi, contrattacchi, misure preventive e difensive conviene decisamente aggiungere anche un altro elemento fondamentale: l’antivirus. Il malware Poseidon viene riconosciuto da tutti i principali antivirus, per cui è opportuno installare sul proprio Mac un antivirus di una marca di buona reputazione. A differenza di Windows, macOS non ha un antivirus integrato vero e proprio ma ha solo una sorta di mini-antivirus che fa molto, ma non arriva al livello di protezione di un prodotto dedicato realizzato da aziende specializzate.

La parte più difficile dell’installazione di un antivirus su un Mac è… convincere l’utente che ne ha bisogno. Quel mito di invulnerabilità creato, sfruttato e poi silenziosamente ritirato più di dieci anni fa continua a restare radicato nelle abitudini delle persone. E a fare danni.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Lettera aperta al direttore de La Stampa per l’articolo sulle presunte foto lunari false

16 de Julho de 2024, 6:59, por Il Disinformatico

A proposito dell’articolo de La Stampa del 12 luglio scorso pieno di falsità sulle missioni lunari a firma di Luigi Grassia (ne ho scritto qui), poco fa ho inviato questa mail al direttore (andrea.malaguti@lastampa.it) e a lettere@lastampa.it.

Oggetto: Richiesta di rettifica vostro articolo a firma Luigi Grassia

Buongiorno,

sono un giornalista specializzato in storia delle missioni spaziali. Le segnalo che l'articolo a firma Luigi Grassia intitolato “Polemica: sulla Luna siamo andati o no? Il film “Fly me to the Moon” rilancia i dubbi” contiene numerosi gravi errori fattuali e varie affermazioni offensive nei confronti di chi lavora nell’industria aerospaziale odierna, di cui l’Italia è protagonista.

Grassia dice che “alcune delle foto che la Nasa ha diffuso al tempo delle missioni Apollo sono state riconosciute come false dalla stessa Nasa, che ha dovuto ritirarle”. Non è vero.

Grassia afferma anche che “la Nasa diffuse a suo tempo, fra migliaia di altre, una doppia versione di una foto dell’Apollo 15 sulla Luna.” Anche questo non è vero.

Possiedo i cataloghi originali NASA delle foto di quella missione. Non c'è nessuna “doppia versione”.

Per cui le insinuazioni di Grassia sulla NASA e sulle sue presunte “ammissioni sporadiche di falso” sono un parto della fantasia o dell’incompetenza di qualcuno a cui Grassia ha prestato troppa fiducia.

Oltretutto tutte queste asserzioni di Grassia vengono fatte senza dare un riferimento documentale. Quando sarebbero state fatte queste “ammissioni”? Da chi? Ogni foto della NASA ha un numero di serie che la identifica: perché non indicare quale sarebbe il numero della foto “doppia”?

Trovo davvero spiacevole che si dia spazio, a cinquantacinque anni dall’impresa lunare, a tesi strampalate già smentite abbondantemente da tutti gli storici e dagli addetti ai lavori.

Trovo deprimente che dalle pagine de La Stampa si getti fango sulla comunità aerospaziale di oggi, asserendo che “purtroppo la tecnologia con cui mezzo secolo fa siamo andati sulla Luna è andata perduta e non si riesce a replicarla”. È falso.

La tecnologia spaziale degli anni sessanta non è “andata perduta”, ma è diligentemente archiviata e viene tuttora consultata da chi costruisce veicoli spaziali in tutto il mondo. Ed è falso che “non si riesce a replicarla”, che vuol dire dare degli incapaci agli ingegneri aerospaziali di oggi. Si riesce eccome, ma si vogliono evitare i rischi pazzeschi che furono accettati mezzo secolo fa, e ci sono molti meno soldi, per cui si procede con grande prudenza.

Proprio a Torino, presso Thales Alenia, si progettano e costruiscono i moduli della stazione orbitale lunare per il ritorno di equipaggi sulla Luna.

Che dalle pagine di un quotidiano torinese si offenda chi studia per anni e lavora sodo per ottenere un risultato che pone Torino e l’Italia all'avanguardia nel mondo è davvero sconfortante.

Chiedo che l’articolo venga rettificato, come previsto dalla deontologia dell'Ordine dei Giornalisti e dalla dignità di una testata storica.

Se le servono fonti tecniche e documentali, sono a sua disposizione. Sono stato consulente dell’Apollo Lunar Surface Journal della NASA, di SuperQuark per la puntata dedicata al primo allunaggio, ho scritto un libro dedicato allo sbufalamento delle tesi di complotto (“Luna? Sì, ci siamo andati!”), sono traduttore personale degli astronauti Apollo e sono stato alla NASA due volte a prendere un campione di roccia lunare da portare in Italia per mostre ed eventi pubblici. In altre parole, conosco abbastanza bene la materia sulla quale Grassia pubblica con preoccupante disinvoltura falsità offensive.

Cordiali saluti

Paolo Attivissimo

Giornalista

Lugano, Svizzera

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Tags deste artigo: disinformatico attivissimo