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Disinformatico

4 de Setembro de 2012, 21:00 , por profy Giac ;-) - | No one following this article yet.
Blog di "Il Disinformatico"

Luigi Grassia su La Stampa tira fango sugli allunaggi e sull’industria aerospaziale, Italia compresa. Rispondo con i fatti

14 de Julho de 2024, 20:25, por Il Disinformatico

Mi avete segnalato in tanti l’articolo a firma di Luigi Grassia su La Stampa, intitolato Polemica: sulla Luna siamo andati o no? Il film “Fly me to the Moon” rilancia i dubbi.

https://www.lastampa.it/scienza/2024/07/12/news/luna_allunaggio_complottisti_film-14469791/

(copia su Archive.is)

Grassia lancia una serie di insinuazioni venendo meno a uno degli obblighi fondamentali di qualunque giornalista: documentare le proprie fonti.

Per esempio, afferma che “alcune delle foto che la Nasa ha diffuso al tempo delle missioni Apollo sono state riconosciute come false dalla stessa Nasa, che ha dovuto ritirarle”. In che occasione, quando e dove lo avrebbe riconosciuto? C’è un comunicato stampa, un documento, una dichiarazione di un portavoce? Boh. Non viene detto.

Grassia scrive che “la Nasa diffuse a suo tempo, fra migliaia di altre, una doppia versione di una foto dell’Apollo 15 sulla Luna.” Ma pagando la differenza, per l’amor del cielo, si potrebbe sapere quale sarebbe questa foto? Ogni foto degli allunaggi (ce ne sono circa ventimila) ha un numero di serie: è così difficile citarlo, così magari il lettore può andare a vedersi questa fantomatica “doppia versione”? Macché. Ci dobbiamo fidare ciecamente di quello che afferma Grassia.

L’unico indizio che l’autore dell’articolo ci concede è questa prolissa descrizione (che inficia qualunque scusa del tipo “eh ma il numero di serie della foto non ci stava nell’articolo per esigenze di spazio”):

“Nell’una e nell’altra si vede il comandante nella stessa posizione, vicino al modulo lunare e a una bandiera americana piantata al suolo. L’angolazione dell’inquadratura è la stessa e la posizione relativa dei tre soggetti astronauta-modulo-bandiera è identica. Per essere precisi, in una delle due il comandante Dave Scott ha le gambe appena un po’ più divaricate e nell’altra appena un po’ meno, quindi si tratta di due scatti differenti, ma presi in rapida successione esattamente dallo stesso punto. Infatti le due immagini del modulo lunare e della bandiera sono esattamente sovrapponibili. Eppure, sorpresa, il profilo della collina che fa da sfondo a queste due foto ufficiali è completamente diverso: in una copre tutto l’orizzonte e nell’altra circa la metà.”

La “doppia versione” della foto di Apollo 15

Quali potrebbero essere queste foto misteriose? Ho fatto una ricerca nei miei archivi: ho i cataloghi originali completi delle missioni Apollo, distribuiti su carta dalla NASA all’epoca, che fanno testo più di qualunque fonte online. Secondo questi cataloghi ufficiali, le foto della missione Apollo 15 nelle quali si vede il comandante Scott accanto al modulo lunare e alla bandiera sono cinque in tutto.

Gli astronauti lunari di quella missione, Dave Scott e Jim Irwin (il terzo, Al Worden, rimase in orbita intorno alla Luna nel veicolo principale), scattarono sulla superficie lunare ben 1151 fotografie su pellicola 70mm, in bianco e nero o a colori, usando i caricatori (magazine) etichettati SS (b/n, 171 foto); MM (b/n, 115 foto); LL (b/n, 177 foto); NN (colore, 165 foto); KK (colore, 131 foto); TT (colore, 94); WW (b/n, 164); PP (b/n, 88); OO (b/n, 46).

Facendole passare pazientemente una per una (cosa che Grassia avrebbe potuto evitarmi di fare se solo avesse citato il numero delle foto in questione) risulta che le immagini corrispondenti alla descrizione (astronauta con bandiera e modulo lunare) sono la AS15-88-11863, 11864, 11865, 11866 (caricatore TT) e la AS15-92-12444, 12445, 12446, 12447, 12448, 12449, 12450, 12451 (caricatore OO).

Ma Grassia parla di una foto di Scott, il comandante, e la tuta del comandante è riconoscibile grazie alla banda rossa sul casco, per cui possiamo escludere le foto 11864, 11865, 11866, 12444, 12445, 12446, 12447 (che mostrano Irwin, senza banda rossa sul casco). Restano quindi cinque foto candidate: 11863, 12448, 12449, 12450, 12451.

Eccole qui: vedete per caso in qualcuna di queste foto quel “profilo della collina che fa da sfondo a queste due foto ufficiali” che sarebbe “completamente diverso: in una copre tutto l’orizzonte e nell’altra circa la metà”? O semplicemente Grassia ha scritto una minchiata?

11863.
12448.
12449.
12450.
12451.

Prosegue Grassia: “La Nasa ha riconosciuto che questo è impossibile (e ci mancherebbe altro) pur avendolo fatto senza enfasi, non nell’ambito di un’autocritica generale”. Ma davvero? Dove lo avrebbe fatto? Quando? Si può avere uno straccio di fonte di questa asserita “autocritica”, o dobbiamo ancora una volta fidarci della parola di Grassia, che a quanto risulta non è particolarmente affidabile, vista la fandonia della “doppia versione” che ha appena regalato ai lettori (paganti) de La Stampa?

Le “ammissioni sporadiche”

“Ma non si è trattato di un caso isolato” scrive poi Grassia. A suo dire “ci sono state alcune altre ammissioni sporadiche di falso. Ad esempio, riguardo a un’immagine in cui una serie di riflettori si specchia inopportunamente sulla visiera di un astronauta, oppure un’altra in cui un incongruo cono di luce, tipo faretto, piove dall’alto (partendo da una misteriosa chiazza bianca) a illuminare una presunta superficie lunare.”

Si va di male in peggio: se nel caso precedente Grassia aveva perlomeno indicato la missione alla quale si riferiva, qui non indica neanche questo dato. Per cui per sapere a quali foto si riferisce dovrei farmi passare seimilacinquecento immagini. Ma anche no. Sospetto di sapere a quali foto si riferisce il giornalista, ma mi piacerebbe sapere da lui quali sono di preciso.

E ancora una volta manca completamente qualunque indicazione di dove, come o quando sarebbero state fatte queste “ammissioni”.

L’“autenticazione” della NASA

Grassia insiste: “La Nasa per ragioni sue ha autenticato alcune di queste foto, per sua ammissione successiva false, provenienti da studi fotografici allestiti sulla Terra, salvo fare marcia indietro alcuni anni dopo.”

Quali avrebbe autenticato? Dove? E dove sarebbe stata pubblicata questa “ammissione successiva”? In che anno, in che modo, da parte di chi sarebbe avvenuta questa ipotetica “marcia indietro”?

La NASA “confusa”

“Tra le foto fasulle scattate in questi studi (o ritoccate) e quelle vere fatte sulla Luna era difficile o impossibile scegliere: apparivano indistinguibili, quanto a verosimiglianza, agli occhi della stessa Nasa, che infatti si è confusa.”

Anche qui, nessuna indicazione di dove si sarebbe “confusa”. E affermare che le foto “fasulle” (che non abbiamo ancora capito quali siano) sarebbero “indistinguibili” è una fesseria tecnica assoluta. 

Primo, le condizioni di illuminazione della superficie lunare sono estremamente particolari e difficilissime da replicare sulla Terra: assenza totale di offuscamento atmosferico, per cui tutto è nitidissimo fino all’orizzonte; una singola fonte primaria di luce (il Sole), in un cielo che per il resto è nero (a parte il bagliore della Terra e quello trascurabile delle stelle). Per cui distinguere una foto fatta sulla superficie lunare reale da una foto fatta in studio è piuttosto facile per una persona competente.

Secondo, sappiamo benissimo quali sono le foto reali. Le pellicole originali sono ancora conservate e consultabili. Subito dopo le missioni, furono fatte copie per contatto dei rullini integrali (si trovano in vendita a prezzi da collezionisti). Da anni i rullini integrali sono stati scansionati e messi online. Basta guardarli per sapere se una foto è autentica oppure no.

Ma si badi bene, dice Grassia, che le sue asserzioni “sono punti fermi, non illazioni.” No, signor Grassia, sono minchiate. Mi scusi la schiettezza, ma non c’è altro termine che le definisca adeguatamente. Lei dice che la NASA si è “confusa”, ma a me viene il dubbio che la confusione stia altrove, non a Houston.

La tuta troppo luminosa e i riflessi nella visiera, che noia

Le sciocchezze complottiste presentate da Grassia proseguono con due classici intramontabili:

  • il presunto mistero di come mai la tuta di un astronauta (Aldrin, Apollo 11) sarebbe troppo illuminata e sarebbe stata “ritoccata per schiarire l’immagine dell’uomo e farla risaltare in modo che il tutto non risultasse buio” (falso, la tuta era altamente riflettente ed era illuminata dalla tuta altrettanto riflettente del fotografo, Neil Armstrong, che infatti rischiara tutto il lato in ombra del modulo lunare, come ho spiegato nel mio libro gratuito online Luna? Sì, ci siamo andati!);
  • e l’altrettanto presunto mistero del punto di inquadratura asseritamente troppo elevato in una foto della missione Apollo 12 che mostra gli astronauti riflessi nelle rispettive visiere riflettenti: chi se la sente di spiegare a Grassia come funziona uno specchio curvo?

Scusate se non mi dilungo a spiegare di nuovo tutti questi “misteri”; l’ho già fatto troppe volte e mi fa davvero tristezza vedere così tanta ignoranza dei concetti di base della fisica e di come funziona il mondo che ci circonda. Di questo passo, dovrei mettermi a spiegare che la Terra non è piatta e che le mucche lontane sembrano piccole perché sono lontane, non perché sono mucche nane (Father Ted).

La minchiata finale è un insulto a tutta l’industria aerospaziale, anche italiana

Va be', magari pensate che io me la prenda troppo. Chissenefrega se sulla Luna ci siamo andati o no 55 anni fa, ci sono problemi più attuali e importanti, direte voi. La gente sulla quale i complottisti e i disinformati come Grassia tirano disinvoltamente fango, dall’alto della loro incompetenza arrogante, è quasi tutta morta. Dei dodici uomini che hanno camminato sulla Luna ne restano in vita solo quattro (Scott, Duke, Schmitt, Aldrin). Tanti dei protagonisti di quell’epoca ci hanno lasciato. Per cui non avete tutti i torti.

Ma quello che mi rode è soprattutto lo schiaffo, l’insulto a tutti coloro che oggi lavorano nell’industria aerospaziale, comprese le tante aziende italiane, come Thales Alenia, che stanno lavorando adesso alla costruzione di una stazione orbitale lunare e a veicoli per tornare sulla Luna con equipaggi. Gente che secondo Grassia è invece inetta e incapace, a giudicare da questa sua frase: “purtroppo la tecnologia con cui mezzo secolo fa siamo andati sulla Luna è andata perduta e non si riesce a replicarla”.

No, caro collega. Prima di tutto, la tecnologia spaziale degli anni sessanta non è “andata perduta”, ma è diligentemente archiviata e viene tuttora consultata da chi costruisce veicoli spaziali in tutto il mondo. Ed è falso che “non si riesce a replicarla”, che vuol dire dare dei coglioni incapaci agli ingegneri aerospaziali di oggi. Si riesce eccome, ma si vogliono evitare i rischi pazzeschi che furono accettati mezzo secolo fa, e ci sono molti meno soldi, per cui si procede con grande prudenza. La capsula Orion che riporterà gli equipaggi umani verso la Luna ha già volato. Il progetto Artemis procede; solennemente, ma procede. Elon Musk lancia razzi supergiganti destinati alla Luna. Ma mi sa che Grassia non se n’è accorto, preso com’era a guardare i profili delle colline.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Luigi Grassia su La Stampa tira fango sugli allunaggi. Rispondo con i fatti

14 de Julho de 2024, 17:51, por Il Disinformatico

Mi avete segnalato in tanti l’articolo a firma di Luigi Grassia su La Stampa, intitolato Polemica: sulla Luna siamo andati o no? Il film “Fly me to the Moon” rilancia i dubbi.

https://www.lastampa.it/scienza/2024/07/12/news/luna_allunaggio_complottisti_film-14469791/

(copia su Archive.is)

Grassia lancia una serie di insinuazioni venendo meno a uno degli obblighi fondamentali di qualunque giornalista: documentare le proprie fonti.

Per esempio, afferma che “alcune delle foto che la Nasa ha diffuso al tempo delle missioni Apollo sono state riconosciute come false dalla stessa Nasa, che ha dovuto ritirarle”. In che occasione, quando e dove lo avrebbe riconosciuto? C’è un comunicato stampa, un documento, una dichiarazione di un portavoce? Boh. Non viene detto.

Grassia scrive che “la Nasa diffuse a suo tempo, fra migliaia di altre, una doppia versione di una foto dell’Apollo 15 sulla Luna.” Ma pagando la differenza, per l’amor del cielo, si potrebbe sapere quale sarebbe questa foto? Ogni foto degli allunaggi (ce ne sono circa ventimila) ha un numero di serie: è così difficile citarlo, così magari il lettore può andare a vedersi questa fantomatica “doppia versione”? Macché. Ci dobbiamo fidare ciecamente di quello che afferma Grassia.

L’unico indizio che l’autore dell’articolo ci concede è questa prolissa descrizione (che inficia qualunque scusa del tipo “eh ma il numero di serie della foto non ci stava nell’articolo per esigenze di spazio”):

“Nell’una e nell’altra si vede il comandante nella stessa posizione, vicino al modulo lunare e a una bandiera americana piantata al suolo. L’angolazione dell’inquadratura è la stessa e la posizione relativa dei tre soggetti astronauta-modulo-bandiera è identica. Per essere precisi, in una delle due il comandante Dave Scott ha le gambe appena un po’ più divaricate e nell’altra appena un po’ meno, quindi si tratta di due scatti differenti, ma presi in rapida successione esattamente dallo stesso punto. Infatti le due immagini del modulo lunare e della bandiera sono esattamente sovrapponibili. Eppure, sorpresa, il profilo della collina che fa da sfondo a queste due foto ufficiali è completamente diverso: in una copre tutto l’orizzonte e nell’altra circa la metà.”

La “doppia versione” della foto di Apollo 15

Quali potrebbero essere queste foto misteriose? Ho fatto una ricerca nei miei archivi: ho i cataloghi originali completi delle missioni Apollo, distribuiti su carta dalla NASA all’epoca, che fanno testo più di qualunque fonte online. Secondo questi cataloghi ufficiali, le foto della missione Apollo 15 nelle quali si vede il comandante Scott accanto al modulo lunare e alla bandiera sono cinque in tutto.

Gli astronauti lunari di quella missione, Dave Scott e Jim Irwin (il terzo, Al Worden, rimase in orbita intorno alla Luna nel veicolo principale), scattarono sulla superficie lunare ben 1151 fotografie su pellicola 70mm, in bianco e nero o a colori, usando i caricatori (magazine) etichettati SS (b/n, 171 foto); MM (b/n, 115 foto); LL (b/n, 177 foto); NN (colore, 165 foto); KK (colore, 131 foto); TT (colore, 94); WW (b/n, 164); PP (b/n, 88); OO (b/n, 46).

Facendole passare pazientemente una per una (cosa che Grassia avrebbe potuto evitarmi di fare se solo avesse citato il numero delle foto in questione) risulta che le immagini corrispondenti alla descrizione (astronauta con bandiera e modulo lunare) sono la AS15-88-11863, 11864, 11865, 11866 (caricatore TT) e la AS15-92-12444, 12445, 12446, 12447, 12448, 12449, 12450, 12451 (caricatore OO).

Ma Grassia parla di una foto di Scott, il comandante, e la tuta del comandante è riconoscibile grazie alla banda rossa sul casco, per cui possiamo escludere le foto 11864, 11865, 11866, 12444, 12445, 12446, 12447 (che mostrano Irwin, senza banda rossa sul casco). Restano quindi cinque foto candidate: 11863, 12448, 12449, 12450, 12451.

Eccole qui: vedete per caso in qualcuna di queste foto quel “profilo della collina che fa da sfondo a queste due foto ufficiali” che sarebbe “completamente diverso: in una copre tutto l’orizzonte e nell’altra circa la metà”? O semplicemente Grassia ha scritto una minchiata?

11863.
12448.
12449.
12450.
12451.

Prosegue Grassia: “La Nasa ha riconosciuto che questo è impossibile (e ci mancherebbe altro) pur avendolo fatto senza enfasi, non nell’ambito di un’autocritica generale”. Ma davvero? Dove lo avrebbe fatto? Quando? Si può avere uno straccio di fonte di questa asserita “autocritica”, o dobbiamo ancora una volta fidarci della parola di Grassia, che a quanto risulta non è particolarmente affidabile, vista la fandonia della “doppia versione” che ha appena regalato ai lettori (paganti) de La Stampa?

Le “ammissioni sporadiche”

“Ma non si è trattato di un caso isolato“ scrive poi Grassia. A suo dire “ci sono state alcune altre ammissioni sporadiche di falso. Ad esempio, riguardo a un’immagine in cui una serie di riflettori si specchia inopportunamente sulla visiera di un astronauta, oppure un’altra in cui un incongruo cono di luce, tipo faretto, piove dall’alto (partendo da una misteriosa chiazza bianca) a illuminare una presunta superficie lunare.”

Si va di male in peggio: se nel caso precedente Grassia aveva perlomeno indicato la missione alla quale si riferiva, qui non indica neanche questo dato. Per cui per sapere a quali foto si riferisce dovrei farmi passare seimilacinquecento immagini. Ma anche no. Sospetto di sapere a quali foto si riferisce il giornalista, ma mi piacerebbe sapere da lui quali sono di preciso.

E ancora una volta manca completamente qualunque indicazione di dove, come o quando sarebbero state fatte queste “ammissioni”.

La “autenticazione” della NASA

Grassia insiste: “La Nasa per ragioni sue ha autenticato alcune di queste foto, per sua ammissione successiva false, provenienti da studi fotografici allestiti sulla Terra, salvo fare marcia indietro alcuni anni dopo.”

Quali avrebbe autenticato? Dove? E dove sarebbe stata pubblicata questa “ammissione successiva”? In che anno, in che modo, da parte di chi sarebbe avvenuta questa ipotetica “marcia indietro”?

La NASA “confusa”

“Tra le foto fasulle scattate in questi studi (o ritoccate) e quelle vere fatte sulla Luna era difficile o impossibile scegliere: apparivano indistinguibili, quanto a verosimiglianza, agli occhi della stessa Nasa, che infatti si è confusa.”

Anche qui, nessuna indicazione di dove si sarebbe “confusa”. E affermare che le foto “fasulle” (che non abbiamo ancora capito quali siano) sarebbero “indistinguibili” è una fesseria tecnica assoluta. 

Primo, le condizioni di illuminazione della superficie lunare sono estremamente particolari e difficilissime da replicare sulla Terra: assenza totale di offuscamento atmosferico, per cui tutto è nitidissimo fino all’orizzonte; una singola fonte primaria di luce (il Sole), in un cielo che per il resto è nero (a parte il bagliore della Terra e quello trascurabile delle stelle). Per cui distinguere una foto fatta sulla superficie lunare reale da una foto fatta in studio è piuttosto facile per una persona competente.

Secondo, sappiamo benissimo quali sono le foto reali. Le pellicole originali sono ancora conservate e consultabili. Subito dopo le missioni, furono fatte copie per contatto dei rullini integrali (si trovano in vendita a prezzi da collezionisti). Da anni i rullini integrali sono stati scansionati e messi online. Basta guardarli per sapere se una foto è autentica oppure no.

Ma si badi bene, dice Grassia, che le sue asserzioni “sono punti fermi, non illazioni.” No, signor Grassia, sono minchiate. Mi scusi la schiettezza, ma non c’è altro termine che le definisca adeguatamente. Lei dice che la NASA si è “confusa”, ma a me viene il dubbio che la confusione stia altrove, non a Houston.

La tuta troppo luminosa e i riflessi nella visiera, che noia

Le sciocchezze complottiste presentate da Grassia proseguono con due classici intramontabili:

  • il presunto mistero di come mai la tuta di un astronauta (Aldrin, Apollo 11) sarebbe troppo illuminata e sarebbe stata “ritoccata per schiarire l’immagine dell’uomo e farla risaltare in modo che il tutto non risultasse buio” (falso, la tuta era altamente riflettente ed era illuminata dalla tuta altrettanto riflettente del fotografo, Neil Armstrong, che infatti rischiara tutto il lato in ombra del modulo lunare, come ho spiegato nel mio libro gratuito online Luna? Sì, ci siamo andati!);
  • e l’altrettanto presunto mistero del punto di inquadratura asseritamente troppo elevato in una foto della missione Apollo 12 che mostra gli astronauti riflessi nelle rispettive visiere riflettenti: chi se la sente di spiegare a Grassia come funziona uno specchio curvo?

Scusate se non mi dilungo a spiegare di nuovo tutti questi “misteri”; l’ho già fatto troppe volte e mi fa davvero tristezza vedere così tanta ignoranza dei concetti di base della fisica e di come funziona il mondo che ci circonda. Di questo passo, dovrei mettermi a spiegare che la Terra non è piatta e che gli oggetti lontani sembrano piccoli perché sono lontani, non perché sono piccoli (Father Ted).

La minchiata finale è un insulto a tutta l’industria aerospaziale, anche italiana

Va be', magari pensate che io me la prenda troppo. Chissenefrega se sulla Luna ci siamo andati o no 55 anni fa, ci sono problemi più attuali e importanti, direte voi. La gente sulla quale i complottisti e i disinformati come Grassia tirano disinvoltamente fango, dall’alto della loro incompetenza arrogante, è quasi tutta morta. Dei dodici uomini che hanno camminato sulla Luna ne restano in vita solo quattro (Scott, Duke, Schmitt, Aldrin). Tanti dei protagonisti di quell’epoca ci hanno lasciato. Per cui non avete tutti i torti.

Ma quello che mi rode è soprattutto lo schiaffo, l’insulto a tutti coloro che oggi lavorano nell’industria aerospaziale, comprese le tante aziende italiane, come Thales Alenia, che stanno lavorando adesso alla costruzione di una stazione orbitale lunare e a veicoli per tornare sulla Luna con equipaggi. Gente che secondo Grassia è invece inetta e incapace, a giudicare da questa sua frase: “purtroppo la tecnologia con cui mezzo secolo fa siamo andati sulla Luna è andata perduta e non si riesce a replicarla”.

No, caro collega. Prima di tutto, la tecnologia spaziale degli anni sessanta non è “andata perduta”, ma è diligentemente archiviata e viene tuttora consultata da chi costruisce veicoli spaziali in tutto il mondo. Ed è falso che “non si riesce a replicarla”, che vuol dire dare dei coglioni incapaci agli ingegneri aerospaziali di oggi. Si riesce eccome, ma si vogliono evitare i rischi pazzeschi che furono accettati mezzo secolo fa, e ci sono molti meno soldi, per cui si procede con grande prudenza. La capsula Orion che riporterà gli equipaggi umani verso la Luna ha già volato. Il progetto Artemis procede; solennemente, ma procede. Elon Musk lancia razzi supergiganti destinati alla Luna. Ma mi sa che Grassia non se n’è accorto, preso com’era a guardare i profili delle colline.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Che ci fa il Disinformatico su un terminale Videotel degli anni 80?

4 de Julho de 2024, 18:32, por Il Disinformatico

A proposito degli anacronismi tecnologici (apparenti) di cui ho parlato nel podcast del 28 giugno scorso, ecco un recente post di questo mio blog visualizzato sullo schermo di un terminale Videotel, di quelli che divennero operativi in Italia intorno alla metà degli anni Ottanta e che quindi si apprestano a compiere quarant’anni.

No, non sono immagini generate tramite fotomontaggio o intelligenza artificiale: sono foto reali.


Se volete sapere come è possibile un’immagine del genere, è tutta merito dell’amico Francesco Sblendorio di Retrocampus.com, dedicato al retrocomputing e all’archeologia informatica. 

Fra le altre cose, Francesco ha realizzato il software della BBS di Retrocampus, con la quale si può interagire sia via Web (bbs.retrocampus.com) sia via modem (+39 0522750051) e si può usare anche un’interfaccia in stile Minitel/Videotel presso minitel.retrocampus.com. Le istruzioni dettagliate sono sul Patreon di Francesco insieme a un riassunto dei principali progetti di Retrocampus e dei servizi offerti (e resi possibili dal sostegno degli utenti).

Retrocampus è anche su Instagram (@retrocampus.bbs). Buon divertimento!

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Che ci fa il Disinformatico su un terminale Videotel degl anni 80?

4 de Julho de 2024, 16:07, por Il Disinformatico

A proposito degli anacronismi tecnologici (apparenti) di cui ho parlato nel podcast del 28 giugno scorso, ecco un recente post di questo mio blog visualizzato sullo schermo di un terminale Videotel, di quelli che divennero operativi in Italia intorno alla metà degli anni Ottanta e che quindi si apprestano a compiere quarant’anni.

No, non sono immagini generate tramite fotomontaggio o intelligenza artificiale: sono foto reali.


Se volete sapere come è possibile un’immagine del genere, è tutta merito dell’amico Francesco Sblendorio di Retrocampus.com, dedicato al retrocomputing e all’archeologia informatica. 

Fra le altre cose, Francesco ha realizzato il software della BBS di Retrocampus, con la quale si può interagire sia via Web (bbs.retrocampus.com) sia via modem (+39 0522750051) e si può usare anche un’interfaccia in stile Minitel/Videotel presso minitel.retrocampus.com. Le istruzioni dettagliate sono sul Patreon di Francesco insieme a un riassunto dei principali progetti di Retrocampus e dei servizi offerti (e resi possibili dal sostegno degli utenti).

Retrocampus è anche su Instagram (@retrocampus.bbs). Buon divertimento!

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Podcast RSI - NASA, monitor giganti, piatti e a colori 60 anni fa. Con tecnologia svizzera

28 de Junho de 2024, 6:23, por Il Disinformatico
logo del Disinformatico

È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate qui sul sito della RSI (si apre in una finestra/scheda separata) e lo potete scaricare qui.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, Google Podcasts, Spotify e feed RSS.

Buon ascolto, e se vi interessano il testo di accompagnamento e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.

Questa è l’ultima puntata prima della pausa estiva: il podcast tornerà il 19 luglio.

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Gli appassionati di archeologia misteriosa li chiamano OOPART: sono gli oggetti fuori posto, o meglio fuori tempo. Manufatti che si suppone non potessero esistere nell’epoca a cui vengono datati e la cui esistenza costituirebbe un anacronismo. Immaginate di trovare una lavastoviglie o uno schema di sudoku dentro una tomba egizia mai aperta prima: sarebbe un OOPART. In realtà i presunti OOPART segnalati finora hanno tutti spiegazioni normali ma comunque affascinanti.

In informatica, invece, esiste uno di questi OOPART davvero difficile da spiegare. Questo oggetto apparentemente fuori dal tempo è un monitor gigante per computer, a colori, ultrapiatto, ad altissima risoluzione, che misura ben tre metri per sette ed è perfettamente visibile in piena luce. Prestazioni del genere oggi sono notevoli, ma si tratta di un manufatto che risale a sessant’anni fa, quando i monitor erano fatti con i tubi catodici, pesantissimi e ingombrantissimi.

La cosa buffa è che questo anacronismo extra large è sotto gli occhi di tutti, ma oggi nessuno ci fa caso. È il monitor gigante che si vede sempre nei documentari e nei film dedicati alle missioni spaziali: il mitico megaschermo del Controllo Missione.

13 aprile 1970. Il Controllo Missione durante una diretta TV trasmessa dal veicolo spaziale Apollo 13. A sinistra si vede lo schermo gigante a colori in alta risoluzione. A destra, la videoproiezione Eidophor a colori (NASA).

Come è possibile che la NASA avesse già, sei decenni fa, una tecnologia che sarebbe arrivata quasi trent’anni più tardi? Tranquilli, gli alieni non c’entrano, ma se chiedete anche ai tecnici del settore e agli informatici come potesse esistere un oggetto del genere a metà degli anni Sessanta, probabilmente non sanno come rispondere.

Questa è la strana storia di questo oggetto a prima vista impossibile e di una serie di tecnologie folli e oggi dimenticate, a base di olio viscoso, dischi rotanti e puntine di diamante, nelle quali c’è di mezzo un notevole pizzico di Svizzera. Se il nome Fritz Fischer e la parola Eidophor non vi dicono nulla, state per scoprire una pagina di storia della tecnologia che non è solo un momento nerd ma è anche una bella lezione di come l’ingegno umano sa trovare soluzioni geniali a problemi in apparenza irrisolvibili.

Benvenuti alla puntata del 28 giugno 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]

Un oggetto impossibile

Se siete fra i tanti che in questo periodo stanno acquistando un televisore ultrapiatto gigante in alta definizione, forse vi ricordate di quando lo schermo televisivo più grande al quale si potesse ambire a livello domestico era un 32 pollici, ossia uno schermo che misurava in diagonale circa 80 centimetri, ed era costituito da un ingombrantissimo, costosissimo e pesantissimo tubo catodico, racchiuso in un mobile squadrato e profondo che troneggiava nella stanza. Sì, c’erano anche i videoproiettori, ma quelli erano ancora più costosi e ingombranti. Magari avete notato questi strani scatoloni nei film di qualche decennio fa. Oggi, invece, è normale avere schermi ultrapiatti, con una diagonale tre volte maggiore, che sono così sottili che si appoggiano contro una parete.

Eppure alla NASA, a metà degli anni Sessanta, su una parete del Controllo Missione che gestiva i lanci spaziali verso la Luna, c’erano non uno ma ben cinque megaschermi perfettamente piatti, nitidissimi, con colori brillanti, visibili nonostante le luci accese in sala. Il più grande di questi schermi misurava appunto tre metri di altezza per sette di larghezza. La risoluzione di questi monitor era talmente elevata che si leggevano anche i caratteri più piccoli delle schermate tecniche e dei grafici che permettevano agli addetti di seguire in dettaglio le varie fasi dei voli spaziali.

Per fare un paragone, maxischermi come il Jumbotron di Sony o i Diamond Vision di Mitsubishi arriveranno e cominceranno a essere installati negli stadi e negli spazi pubblicitari solo negli anni Ottanta, e comunque non avranno la nitidezza di questi monitor spaziali della NASA. Certo, al cinema c’erano dimensioni e nitidezze notevoli e anche superiori, soprattutto con i grandi formati come il 70 mm, ma si trattava di proiezioni di pellicole preregistrate, mentre qui bisognava mostrare immagini e grafici in tempo reale. I primi monitor piatti, con schermi al plasma, risalgono anch’essi agli anni Ottanta ed erano installati nei computer portatili di punta dell’epoca, ma non raggiungevano certo dimensioni da misurare in metri e in ogni caso erano monocromatici.

I primi schermi piatti a colori arriveranno addirittura trent’anni dopo quelli della NASA, nel 1992, e saranno ancora a bassa risoluzione. Il primo televisore a schermo piatto commercialmente disponibile sarà il Philips 42PW9962 (un nome facilissimo da ricordare), classe 1995, che misurerà 107 centimetri di diagonale e avrà una risoluzione modestissima, 852 x 480 pixel, che oggi farebbe imbarazzare un citofono. Costerà ben 15.000 dollari dell’epoca. Oggi dimensioni diagonali di 98 pollici (cioè due metri e mezzo) e risoluzioni dai 4K in su (ossia 3840 x 2160 pixel) sono commercialmente disponibili a prezzi ben più bassi.

Insomma, quella tecnologia usata dall’ente spaziale statunitense sembra davvero fuori dal tempo, anacronistica, impossibile. Però esisteva, e le foto e i filmati di quegli anni mostrano questi schermi all’opera, con colori freschissimi e dettagli straordinariamente nitidi, nella sala ben illuminata del Controllo Missione.

Per capire come funzionavano bisogna fare un salto a Zurigo.

Eidophor, il videoproiettore a olio

Per proiettare immagini televisive, quindi in tempo reale, su uno schermo di grandi dimensioni, negli anni Sessanta del secolo scorso esisteva una sola tecnologia: andava sotto il nome di Eidophor ed era un proiettore speciale, realizzato dalla Gretag AG di Regensdorf.

Era questo apparecchio che mostrava le immagini che arrivavano dallo spazio e dalla Luna ai tecnici del Controllo Missione di Houston, e si trattava di un marchingegno davvero particolare, concepito dall’ingegner Fritz Fischer, docente e ricercatore presso il Politecnico di Zurigo, dove lo aveva sviluppato addirittura nel 1939 [brevetto US 2,391,451], presentando il primo esemplare sperimentale nel 1943. Se ve lo state chiedendo, il nome Eidophor deriva da parole greche che significano grosso modo “portatore di immagini”.

Questo proiettore usava un sistema ottico simile a quello di un proiettore per pellicola, ma al posto della pellicola c‘era un disco riflettente che girava lentamente su se stesso. Questo disco era ricoperto da un velo di olio trasparente ad alta viscosità, sul quale un fascio collimato e pilotato di elettroni depositava delle cariche elettrostatiche che ne deformavano la superficie.

Uno specchio composto da strisce riflettenti alternate a bande trasparenti proiettava la luce intensissima di una lampada ad arco su questo velo di olio, e solo le zone del velo che erano deformate dal fascio di elettroni riflettevano questa luce verso lo schermo, permettendo di disegnare delle immagini in movimento.

Schema di funzionamento del velo d’olio e dello specchio a strisce, tratto da Eidophor – der erste Beamer, Ngzh.ch, 2018.

Lo so, sembra una descrizione molto steampunk. E come tanta tecnologia della cultura steampunk, anche l’Eidophor era grosso, ingombrante e difficile da gestire. Usarlo richiedeva la presenza di almeno due tecnici e un’alimentazione elettrica trifase, e se il velo d’olio si contaminava l’immagine prodotta veniva danneggiata. Però la sua tecnologia completamente analogica funzionava e permetteva di mostrare immagini televisive in diretta, inizialmente in bianco e nero e poi a colori, su schermi larghi fino a 18 metri.

Nel 1953 l’Eidophor fu presentato negli Stati Uniti in un prestigioso cinema di New York, su iniziativa della casa cinematografica 20th Century Fox, che sperava di installarne degli esemplari in centinaia di sale per mostrare eventi sportivi o spettacoli in diretta, ma non se ne fece nulla, perché l’ente statunitense di regolamentazione delle trasmissioni non concesse le frequenze televisive necessarie per la diffusione.

Negli anni Sessanta le emittenti televisive di tutto il mondo cominciarono a usare questi Eidophor come sfondi per i loro programmi, specialmente nei telegiornali e per le cronache degli eventi sportivi. Fra i clienti di questa invenzione svizzera ci furono anche il Pentagono, per applicazioni militari, e appunto la NASA, che ne installò ben trentaquattro esemplari nella propria sede centrale per mostrare le immagini dei primi passi di esseri umani sulla Luna a luglio del 1969. Gli Eidophor della NASA furono modificati in modo da avere una risoluzione quasi doppia rispetto allo standard televisivo normale, 945 linee orizzontali invece delle 525 standard, rendendo così leggibili anche i caratteri più piccoli delle schermate di dati. In pratica la NASA aveva dei megaschermi HD negli anni Sessanta grazie a questa tecnologia svizzera, che fra l’altro piacque anche ai rivali sovietici, che installarono degli Eidophor anche nel loro centro di lancio spaziale.

Ma per lo schermo gigante centrale della NASA neppure l’Eidophor era all’altezza dei requisiti. Per quelle immagini ultranitide a colori era necessario ricorrere ai diamanti e alla Bat-Caverna.

Diamanti e Bat-Caverne

Anche in questo caso la tecnologia analogica fece acrobazie notevolissime. Lo schermo usava una batteria di ben sette proiettori, alloggiati in una enorme sala completamente dipinta di nero e battezzata “Bat-Caverna” dai tecnici che ci lavoravano.

Schema del sistema di proiezione, che mostra i grandi specchi usati per deviare i fasci di luce dei proiettori e ridurre così le dimensioni della sala tecnica.

Questi proiettori usavano lampade allo xeno, la cui luce potentissima illuminava delle diapositive e le proiettava su grandi lastre di vetro semitrasparente, che costituivano gli schermi veri e propri. Ma il calore di queste lampade avrebbe fuso o sbiadito in fretta qualunque normale diapositiva su pellicola, e i grafici dovevano invece restare sullo schermo per ore.

Così i tecnici si inventarono delle diapositive molto speciali, composte da lastrine di vetro ricoperte da un sottilissimo strato opaco di metallo. Su queste diapositive si disegnavano in anticipo le immagini da mostrare, incidendole direttamente nel metallo, un po’ come si fa per i circuiti stampati. Il metallo rimosso lasciava passare la luce, e poi dei filtri colorati permettevano di tingere la luce proiettata sullo schermo.

Questo permetteva di avere grafici e immagini di grandissima nitidezza, ben oltre qualunque risoluzione di monitor dell’epoca, e risolveva il problema delle immagini statiche, per esempio quella del globo terrestre o di un grafico di traiettoria o dei consumi di bordo del veicolo spaziale. Ma non risolveva il problema di aggiornare quei grafici con i dati di telemetria che provenivano dallo spazio e dai centri di calcolo della NASA.

Dettaglio di una porzione del megaschermo principale del Controllo Missione.

La soluzione ingegnosa, anche in questo caso fortemente analogica, fu montare alcuni di questi sette proiettori su un supporto che permetteva di orientarli. Questi proiettori avevano delle diapositive metalliche nelle quali c’era incisa la sagoma dei vari veicoli spaziali da seguire, e il loro puntamento era comandato dai dati che arrivavano dal centro di calcolo della NASA [l’adiacente Real-Time Computer Complex, descritto in italiano qui da Tranquility Base], pieno di grandi computer IBM 360, che elaboravano i dati trasmessi dal veicolo spaziale. In pratica, invece di aggiornare l’intera immagine come si fa con i normali monitor, veniva semplicemente spostata la diapositiva che raffigurava il veicolo e lo sfondo restava fisso.

Ma i grafici e le traiettorie andavano disegnati e aggiornati man mano, e quindi questo trucco di spostare la sagomina, per così dire, non bastava. Così la NASA adottò un trucco ancora più elegante: una testina di diamante, simile alle puntine dei giradischi, comandata da dei servomotori sugli assi X e Y, incideva la diapositiva, rimuovendo lo strato metallico opaco e facendo passare la luce del proiettore attraverso la zona incisa.

Sì, le immagini venivano letteralmente incise, formando simpatici truciolini metallici, spazzati via da delle potenti ventole. Quindi quando vedete nei documentari di quel periodo che il tracciato grafico della traiettoria di un veicolo spaziale si aggiorna, è perché la diapositiva veniva grattata. Semplice ed efficace, anche se ovviamente non era possibile rifare e correggere.

Sono tutte tecniche in apparenza semplici, una volta che qualcuno le ha escogitate, ma soprattutto sono tecniche che rivelano una lezione troppo spesso dimenticata nell’informatica di oggi: invece di usare potenza di calcolo a dismisura e risolvere tutto con il software per forza bruta, conviene esaminare bene il problema e capire prima di tutto quali sono i requisiti effettivi del progetto.

Nel caso della NASA, quei monitor dovevano mostrare in altissima risoluzione solo immagini statiche con pochi elementi in movimento, per cui non era necessario un approccio “televisivo”, nel quale l’immagine intera viene aggiornata continuamente. Per le immagini televisive vere e proprie c’era l’Eidophor; per tutto il resto bastavano diapositive metalliche e una puntina di diamante che le grattasse.

Sarebbe bello vedere applicare questi principi, per esempio, all’intelligenza artificiale. Il modello di oggi delle IA è forza bruta, con impatti energetici enormi. Ma ci sono soluzioni più eleganti ed efficienti. Per esempio, se si tratta di fare riconoscimento di immagini di telecamere di sorveglianza, non ha senso fare come si fa oggi, ossia mandare le immagini a un centro di calcolo remoto e poi farle analizzare lì da un’intelligenza artificiale generalista; conviene invece fare l'analisi sul posto, a bordo della telecamera, con una IA fatta su misura, che consuma infinitamente meno e rispetta molto di più la privacy.

Ma per ora, purtroppo, si preferisce la forza bruta.


Fonti: Large screen display for the Mission Control Center, NASA, 1989; Plasma display, Wikipedia; How Does a Jumbotron Work?, ThoughtCo, 2019; Watch those men on the Moon, ETHZ.ch, 2019; Der Eidophor-Projektor, ETHZ.ch; Viel Licht für grosse Leinwände – Der Eidophor, ETHZ.ch, 2015; Handwiki.orgEidophor – der erste Beamer, Ngzh.ch, 2018; Apollo Flight Controller 101: Every console explained, Ars Technica, 2019.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


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