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Disinformatico

4 de Setembro de 2012, 21:00 , por profy Giac ;-) - | No one following this article yet.
Blog di "Il Disinformatico"

Podcast RSI - Arte avvelenata contro l’intelligenza artificiale

21 de Junho de 2024, 2:12, por Il Disinformatico
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ALLERTA SPOILER: Questo è il testo di accompagnamento al podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera che uscirà questo venerdì presso www.rsi.ch/ildisinformatico.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, Google Podcasts, Spotify e feed RSS.

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[CLIP: La scena del libro avvelenato da “Il Nome della Rosa”]

Le intelligenze artificiali generative, quelle alle quali si può chiedere di generare un’immagine imitando lo stile di qualunque artista famoso, sono odiatissime dagli artisti, che già da tempo le accusano di rubare le loro opere per imparare a imitarle, rovinando il mercato e sommergendo le opere autentiche in un mare di imitazioni mediocri. La stessa cosa sta succedendo adesso anche con i film: software come il recentissimo Dream Machine creano video sfacciatamente ispirati, per non dire copiati, dai film d’animazione della Pixar.

Le società che operano nel settore dell’intelligenza artificiale stanno facendo soldi a palate, ma agli artisti di cui imitano il lavoro non arriva alcun compenso. Pubblicare una foto, un’illustrazione o un video su un sito o sui social network, come è normale fare per farsi conoscere, significa quasi sempre che quell’opera verrà acquisita da queste società. E questo vale, oltre che per le immagini di fotografi e illustratori, anche per le nostre foto comuni.

Ma ci sono modi per dire di no a tutto questo. Se siete artisti e volete sapere come impedire o almeno limitare l’abuso delle vostre opere, o se siete semplicemente persone che vogliono evitare che le aziende usino le foto che avete scattato per esempio ai vostri figli, potete opporvi almeno in parte a questo trattamento. E nei casi peggiori potete addirittura mettere del veleno digitale nelle vostre immagini, così le intelligenze artificiali che le sfoglieranno ne verranno danneggiate e non le potranno usare, un po’ come nel romanzo e nel film Il nome della rosa di cui avete sentito uno spezzone in apertura.

Vi interessa sapere come si fa? Ve lo racconto in questa puntata del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Questa è la puntata del 21 giugno 2024. Benvenuti. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]

Reclutati a forza

I generatori di immagini basati sull’intelligenza artificiale sono diventati estremamente potenti e realistici nel giro di pochissimo tempo. Il problema è che questi generatori sono stati creati, o più precisamente addestrati, usando le immagini di moltissimi artisti, senza il loro consenso e senza riconoscere loro alcun compenso.

Ogni intelligenza artificiale, infatti, ha bisogno di acquisire enormi quantità di dati. Una IA concepita per generare testi deve leggere miliardi di pagine di testo; una IA pensata per generare immagini deve “guardare”, per così dire, milioni di immagini, e così via. Il problema è che questi dati spesso sono presi da Internet in maniera indiscriminata, senza chiedere permessi e senza dare compensi.

Gli artisti dell’immagine, per esempio grafici, illustratori, fotografi e creatori di video, normalmente pubblicano le proprie opere su Internet, specialmente nei social network, per farsi conoscere, e quindi anche i loro lavori vengono acquisiti dalle intelligenze artificiali.

Il risultato di questa pesca a strascico è che oggi è possibile chiedere a un generatore di immagini di creare una foto sintetica o un’illustrazione nello stile di qualunque artista, per esempio un uomo in bicicletta nello stile di Gustav Klimt, di Raffaello, di Andy Warhol o dei mosaicisti bizantini, e si ottiene in una manciata di secondi un’immagine che scimmiotta il modo di disegnare o dipingere o creare mosaici o fare fotografie di quegli artisti. In alcuni casi si può addirittura inviare a questi generatori un’immagine autentica creata da uno specifico artista e chiedere di generarne una versione modificata. E lo si può fare anche per gli artisti ancora in vita, che non sono per nulla contenti di vedere che un software può sfornare in pochi istanti migliaia di immagini che scopiazzano le loro fatiche.

Sono imitazioni spesso grossolane, che non ingannerebbero mai una persona esperta ma che sono più che passabili per molti utenti comuni, che quindi finiscono per non comperare gli originali. Per gli artisti diventa insomma più difficile guadagnarsi da vivere con la propria arte, e quello che è peggio è che i loro mancati ricavi diventano profitti per aziende stramiliardarie.

Inoltre pochi giorni fa è stato presentato il software Dream Machine, che permette di generare brevi spezzoni di video partendo da una semplice descrizione testuale, come fa già Sora di OpenAI, con la differenza che Sora è riservato agli addetti ai lavori, mentre Dream Machine è pubblicamente disponibile. Gli esperti hanno notato ben presto che nei video dimostrativi di Dream Machine non c’è solo un chiaro riferimento allo stile dei cartoni animati della Pixar: c’è proprio Mike Wazowski di Monsters & Co, copiato di peso.

Sarà interessante vedere come la prenderà la Disney, che detiene i diritti di questi personaggi e non è mai stata particolarmente tenera con chi viola il suo copyright.

Il problema delle immagini acquisite senza consenso dalle intelligenze artificiali riguarda anche le persone comuni che si limitano a fare foto di se stessi o dei propri figli. L’associazione Human Rights Watch, ai primi di giugno, ha segnalato che negli archivi di immagini usati per addestrare le intelligenze artificiali più famose si trovano foto di bambini reali, tratte dai social network, con tanto di nomi e cognomi che li identificano. Questi volti possono quindi riemergere nelle foto sintetiche illegali di abusi su minori, per esempio.

Il problema, insomma, è serio e tocca tutti. Vediamo quali sono le soluzioni.

Fermate il mondo, voglio scendere

Togliere tutte le proprie immagini da Internet, o non pubblicarle affatto online, è sicuramente una soluzione drasticamente efficace, in linea di principio, ma in concreto è una strada impraticabile per la maggior parte delle persone e soprattutto per gli artisti e i fotografi, per i quali Internet è da sempre la vetrina che permette loro di farsi conoscere e di trovare chi apprezza le loro creazioni. E comunque ci sarà sempre qualcuno che le pubblicherà online, quelle immagini, per esempio nelle versioni digitali delle riviste o dei cataloghi delle mostre.

Un altro approccio che viene facilmente in mente è il cosiddetto watermarking: la sovrapposizione di diciture semitrasparenti che mascherano in parte l’immagine ma la lasciano comunque visibile, come fanno le grandi aziende di immagini stock, per esempio Getty Images, Shutterstock o Adobe. Ma le intelligenze artificiali attuali sono in grado di ignorare queste diciture, per cui questa tecnica è un deterrente contro la pubblicazione non autorizzata ma non contro l’uso delle immagini per l’addestramento delle IA.

Va un po’ meglio se si usa il cosiddetto opt-out: l’artista manda un esemplare della propria foto o illustrazione ai grandi gestori di intelligenze artificiali e chiede formalmente che quell’immagine sia esclusa d’ora in poi dall’addestramento o training dei loro prodotti. Lo si può fare per esempio per DALL-E 3 di OpenAI, che viene usato anche dai generatori di immagini di Microsoft, oppure per Midjourney e Stability AI, mandando una mail agli appositi indirizzi. Lo si può fare anche per le intelligenze artificiali gestite da Meta, ma con molte limitazioni e complicazioni. Trovate comunque tutti i link a queste risorse su Disinformatico.info.

Il problema di questa tecnica di opt-out è che è tediosissima: in molti casi richiede infatti che venga inviato a ogni gestore di generatori di immagini un esemplare di ogni singola illustrazione o foto da escludere, e quell’esemplare va descritto in dettaglio. Se un artista ha centinaia o migliaia di opere, come capita spesso, segnalarle una per una è semplicemente impensabile, ma è forse fattibile invocare questa esclusione almeno per le immagini più rappresentative o significative dello stile di un artista o di un fotografo.

C’è anche un’altra strada percorribile: pubblicare le proprie immagini soltanto sul proprio sito personale o aziendale, e inserire nel sito del codice che dica a OpenAI e agli altri gestori di intelligenze artificiali di non sfogliare le pagine del sito e quindi di non acquisire le immagini presenti in quelle pagine.

In gergo tecnico, si inserisce nel file robots.txt del proprio sito una riga di testo che vieta l’accesso al crawler di OpenAI e compagni. Anche in questo caso, le istruzioni per OpenAI e per altre società sono disponibili su Disinformatico.info [le istruzioni per OpenAI sono qui; quelle per altre società sono qui].

Si può anche tentare la cosiddetta segmentazione: in pratica, le immagini non vengono pubblicate intatte, ma vengono suddivise in porzioni visualizzate una accanto all’altra, un po’ come le tessere di un mosaico, per cui le intelligenze artificiali non riescono a “vedere”, per così dire, l’immagine completa, mentre una persona la vede perfettamente. Uno dei siti che offrono questo approccio è Kin.art.

Tutti questi metodi funzionano abbastanza bene: non sono rimedi assoluti, ma perlomeno aiutano a contenere il danno escludendo le principali piattaforme di generazione di immagini. Tuttavia sono molto onerosi, e ci sarà sempre qualche start-up senza scrupoli che ignorerà le richieste di esclusione o troverà qualche modo di eludere questi ostacoli. Sarebbe bello se ci fosse un modo per rendere le proprie immagini inutilizzabili dalle intelligenze artificiali in generale, a prescindere da dove sono pubblicate.

Quel modo c’è, ed è piuttosto drastico: consiste nell’iniettare veleno digitale nelle proprie creazioni.

Veleno digitale: IA contro IA

Parlare di veleno non è un’esagerazione: il termine tecnico per questo metodo è infatti data poisoning, che si traduce con “avvelenamento dei dati”. In pratica consiste nell’alterare i dati usati per l’addestramento di un’intelligenza artificiale in modo che le sue elaborazioni diano risultati errati o completamente inattendibili.

Nel caso specifico della protezione delle proprie immagini, il data poisoning consiste nel modificare queste immagini in modo che contengano alterazioni che non sono visibili a occhio nudo ma che confondono o bloccano completamente il processo di addestramento di un’intelligenza artificiale. Semplificando, l’intelligenza artificiale acquisisce una foto del vostro gatto, ma grazie a queste alterazioni la interpreta come se fosse la foto di un cane, di una giraffa o di una betoniera, anche se all’occhio umano si tratta chiaramente della foto di un bellissimo gatto.

Ci sono programmi appositi per alterare le immagini in questo modo: Glaze e Nightshade, per esempio, sono gratuiti e disponibili per Windows e macOS. Richiedono parecchia potenza di calcolo e svariati minuti di elaborazione per ciascuna immagine, ma è possibile dare loro un elenco di immagini e farle elaborare tutte automaticamente. Non sono infallibili, e alcune aziende di intelligenza artificiale adottano già tecniche di difesa contro queste alterazioni. Ma nella maggior parte dei casi queste tecniche consistono semplicemente nell’ignorare qualunque immagine che contenga indicatori di queste alterazioni, per cui se il vostro scopo è semplicemente evitare che le vostre immagini vengano incluse nell’addestramento di un’intelligenza artificiale, Glaze e Nightshade vanno benissimo.

Mist è un altro programma di questo tipo, ma invece di alterare le immagini in modo che la IA le interpreti in modo completamente errato le modifica in una maniera speciale che fa comparire una sorta di watermark o sovrimpressione decisamente sgradevole, una sorta di velo di geroglifici, in ogni immagine generata partendo da immagini trattate con Mist, che come i precedenti è gratuito e disponibile per macOS e Windows e richiede una scheda grafica piuttosto potente e tempi di elaborazione significativi.

C’è una sottile ironia nell’usare software basati sull’intelligenza artificiale per sconfiggere le aziende basate sull’intelligenza artificiale, ma in tutta questa rincorsa fra guardie e ladri non bisogna dimenticare che questi software consumano quantità preoccupanti di energia per i loro calcoli straordinariamente complessi: a gennaio 2024, l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) ha pubblicato una stima secondo la quale il 4% della produzione di energia mondiale nel 2026 sarà assorbito dai data center, dalle criptovalute e dall’intelligenza artificiale. Per dare un’idea di cosa significhi, il 4% equivale al consumo energetico di tutto il Giappone.

La stessa agenzia ha calcolato che una singola ricerca in Google consuma 0,3 wattora di energia elettrica, mentre una singola richiesta a ChatGPT ne consuma 2,9, ossia quasi dieci volte di più. Per fare un paragone, se tutti usassero ChatGPT invece di Google per cercare informazioni, la richiesta di energia aumenterebbe di 10 terawattora l’anno, pari ai consumi annui di un milione e mezzo di europei.

Pensateci, la prossima volta che invece di usare un motore di ricerca vi affidate a un’intelligenza artificiale online.


Fonti aggiuntive: How to keep your art out of AI generators, The Verge; How watermarks can help protect against fraud with generative AI like ChatGPT, Fast Company. 

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Podcast RSI - Instagram, l’etichetta “Creato con IA” fa infuriare i fotografi veri; aggiornamento su Windows Recall

14 de Junho de 2024, 5:03, por Il Disinformatico
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È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate qui sul sito della RSI (si apre in una finestra/scheda separata) e lo potete scaricare qui.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, Google Podcasts, Spotify e feed RSS.

Buon ascolto, e se vi interessano il testo di accompagnamento e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.

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Se siete fra i due miliardi e mezzo di utenti di Instagram, probabilmente avete notato che da qualche settimana alcune fotografie postate su questo social network sono accompagnate da una piccola dicitura: nella versione italiana, questa dicitura è “Creato con IA”, dove “IA” ovviamente sta per l’immancabile, onnipresente intelligenza artificiale.

Gli hater dell’intelligenza artificiale – sì, esistono e sono numerosi e anche inviperiti – vedono questa etichetta sulle fotografie di luoghi e persone pubblicate su Instagram e lasciano commenti livorosi in cui accusano chi le ha postate di essere un bugiardo, perché secondo loro l’etichetta dimostra che si tratta di falsi creati appunto con l’intelligenza artificiale. E gli autori delle foto in questione si sgolano, invano, cercando di dimostrare che le loro foto sono autentiche, scattate davvero sul luogo e con soggetti e persone reali. Niente da fare: l’etichetta “Creato con IA” li condanna. Fotografi professionisti celebri si vedono screditati di colpo da queste tre brevi parole.

Questa è la storia strana di una iniziativa di Meta, proprietaria di Instagram, partita con l’intento di fare chiarezza nel caos delle immagini sintetiche spacciate per vere che stanno intasando questo social network. Quell’intento si è trasformato in un autogol, che sta facendo infuriare i fotografi che avrebbe dovuto proteggere. E fra quei fotografi, e fra quegli accusati, potreste trovarvi anche voi.

Se volete saperne di più e conoscere come difendervi da questi nuovi hater, siete nel posto giusto: benvenuti! Questa è la puntata del 14 giugno 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]

Recall richiamato

Prima di tutto devo fare un aggiornamento a una delle notizie che ho segnalato nel podcast precedente, ossia l’introduzione in Windows 11 di un nuovo servizio, chiamato Recall, che in sostanza registra localmente tutto quello che passa sullo schermo, con ovvi problemi di privacy. Poco dopo la chiusura della puntata, Microsoft ha reagito al clamore mediatico prodotto dall’annuncio di Recall e ha risposto in parte alle preoccupazioni degli esperti, modificando il funzionamento del servizio.

Mentre prima Recall era attivo per impostazione predefinita e toccava all’utente scoprire come disattivarlo, d’ora in poi sarà attivato solo se l’utente accetterà la proposta di attivazione, che comparirà durante la configurazione iniziale del computer (The Verge). Restano ancora valide tutte le considerazioni di privacy e di sicurezza che sono state segnalate dagli esperti per chi decide di attivare Recall, ma perlomeno adesso è più facile e naturale per l’utente rifiutare questo servizio.

Colgo l’occasione per precisare anche un altro dettaglio importante: per il momento, Recall viene installato ed è disponibile soltanto sui computer di tipo Copilot+ dotati di processore ARM e processore neurale o NPU, che sono una decina di modelli di varie marche. Chi ha un computer meno recente di questi non si vedrà proporre l’attivazione di Recall. Almeno per ora, perché Microsoft ha dichiarato di voler fornire supporto anche per i computer con processori AMD e Intel, che sono i più diffusi. Staremo a vedere.

Instagram e l’etichetta “Creato con IA”

Da qualche settimana Instagram ha iniziato ad aggiungere automaticamente ai post una dicitura che avvisa gli utenti che un’immagine postata è stata creata usando prodotti basati sull’intelligenza artificiale. In italiano questa dicitura è “Creato con IA”.

Dall’account Instagram @candyrose_mc (link diretto al post).

L’intenzione di Meta era buona: etichettare chiaramente le immagini sintetiche generate con l’intelligenza artificiale, che ormai hanno raggiunto un livello di realismo tale da rendere molto difficile, se non impossibile, distinguere un’immagine sintetica da una fotografia reale.

La pubblicazione di immagini sintetiche fotorealistiche, senza avvisare esplicitamente che si tratta di qualcosa che è stato generato completamente da zero e non esiste nella realtà fisica, è infatti chiaramente ingannevole, specialmente quando l’immagine generata rappresenta una situazione plausibile nel mondo reale. Il rischio che i professionisti delle fake news usino i generatori di immagini basati sull’intelligenza artificiale per produrre immagini false di persone conosciute, allo scopo per esempio di ridicolizzarle o screditarle, è fin troppo evidente e ne esistono già molti casi documentati.

C’è anche il problema che i generatori di immagini finiscono per svilire il lavoro e la fatica dei fotografi professionisti, perché invece di comporre pazientemente la scena, mettere in posa il soggetto, regolare le luci e tutte le altre cose che un fotografo è costretto a fare fisicamente per ottenere una certa immagine, oggi si può ottenere un risultato più che paragonabile usando l’intelligenza artificiale, standosene comodamente al computer. Instagram è invaso, infatti, dalle foto di “modelle” che sono in realtà immagini generate dal computer, e le fotomodelle reali si vedono scavalcate da immagini sintetiche che possono essere fabbricate in una manciata di secondi, non si stancano, non invecchiano, non cambiano forme o peso e non hanno spese di trasferta o compensi da pretendere. E gran parte degli utenti (e anche dei committenti) non è in grado di accorgersi della differenza.

Etichettare le immagini sintetiche sembrebbe quindi un’ottima idea per difendere il professionismo dei fotografi e il lavoro di modelli e modelle in carne e ossa, e anche per contrastare le fake news; eppure i fotografi sono sul piede di guerra e pubblicano proteste indignate contro questa etichettatura.

L’etichetta che scredita

La ragione delle loro proteste è molto semplice: la “soluzione” escogitata da Meta sta etichettando come sintetiche, ossia false agli occhi del pubblico, anche le loro foto, quelle scattate con una fotocamera, inquadrando un soggetto fisico reale. L’etichetta “Creato con IA” sta insomma screditando il lavoro di moltissimi professionisti, ed è importante che chi usa Instagram sia ben consapevole che al momento attuale questa etichetta non vuol dire necessariamente che l’immagine sia stata generata da zero con l’intelligenza artificiale, e che viceversa la mancanza di questa etichetta non è una garanzia di autenticità.

Questa etichetta, infatti, viene applicata da Meta ai post su Instagram in due casi. Il primo è quello in cui chi posta un’immagine decide volontariamente di etichettarla come sintetica, usando la funzione apposita presente nell’app di Instagram [per esempio per evitare di incappare in sanzioni da parte di Meta]. Il secondo caso, quello più importante, è quello in cui Meta rileva in un’immagine sintetica la presenza di appositi indicatori, che vengono incorporati nell’immagine sotto forma di metadati dai programmi di generazione o di fotoritocco. Questi indicatori informano Meta che è stato fatto uso di intelligenza artificiale per elaborare l’immagine in questione.

Ma attenzione: l’etichetta “Creato con IA” viene applicata automaticamente da Meta non solo quando l’immagine è totalmente generata, ma anche quando una fotografia reale viene manipolata in qualunque modo, anche molto lievemente, usando software come Photoshop, che adoperano per alcuni strumenti l’intelligenza artificiale per produrre fotoritocchi sempre più rapidi e sofisticati.

Ovviamente c’è una differenza enorme fra un’immagine fotorealistica completamente generata al computer e una fotografia tradizionale alla quale è stato fatto un piccolo ritocco digitale per rimuovere, che so, un dettaglio antiestetico, eppure Meta mette tutto nel mucchio, perché in realtà non sta facendo alcun lavoro di analisi sofisticata delle immagini, per esempio per cercare di “capire” dal contenuto e dal contesto se sono sintetiche oppure no: sta semplicemente controllando se sono presenti o meno questi metadati. Se ci sono, mostra l’etichetta “Creato con IA”, e lo fa anche se il fotografo ha usato una vera fotocamera e ha inquadrato per esempio una modella reale, andando in un luogo reale, ma ha usato, anche in misura minima, uno degli strumenti di rifinitura di Photoshop basati sull’intelligenza artificiale, per esempio per rimuovere una minuscola sbavatura nel trucco o un granello di polvere che era finito sul sensore della fotocamera.

E viceversa, se questi metadati non ci sono, o vengono semplicemente rimossi con un trucco semplice come fare uno screenshot dell’immagine generata e pubblicare quello screenshot, anche l’immagine più vistosamente sintetica non verrà etichettata come “creata con IA”.

Purtroppo moltissimi utenti non sono al corrente di come funziona questo sistema di etichettatura e quindi stanno accusando di falsificazione fotografi che in realtà non hanno alcuna colpa. Questa etichetta così grossolana, insomma, sta causando danni reputazionali molto significativi. Ma questo a Meta non sembra interessare. Non per nulla fino al 2014 il motto ufficiale di Facebook, oggi Meta, era “move fast and break things”, ossia “muoviti in fretta e rompi le cose”: l’importante è fare soldi in fretta, e se nel farli si rovina la reputazione di qualcuno, il problema è di quel qualcuno, non di Meta.

Fate attenzione, insomma, a non farvi coinvolgere in discussioni e polemiche interminabili sulla “autenticità” di una foto su Instagram basandovi su questa etichetta: il rischio di trovarsi dalla parte del torto è molto alto. Anche perché forse state creando anche voi immagini sintetiche, di quelle che Meta etichetterebbe come “create con IA”, e nemmeno ve ne accorgete.

Fotografia computazionale

Se fate foto con il vostro smartphone, infatti, è molto probabile che alcuni dei filtri automatici presenti in questi dispositivi si basino sull’intelligenza artificiale. Per esempio, una foto di gruppo in cui tutti hanno miracolosamente gli occhi aperti o sorridono viene ottenuta spesso facendo una rapidissima raffica di foto e poi usando il riconoscimento delle immagini e dei volti per prendere dai vari scatti le facce venute bene e sovrapporle a quelle che hanno gli occhi chiusi o le espressioni serie. E tutto questo avviene direttamente a bordo dello smartphone, senza che ve ne accorgiate. Questa tecnica viene chiamata fotografia computazionale, e moltissime persone la usano senza nemmeno saperlo, perché è una funzione automatica standard degli smartphone di fascia alta.

Una foto ottenuta in questo modo è “falsa”, dato che non rappresenta un momento realmente esistito, e quindi dovrebbe essere etichettata da Meta? Oppure rappresenta la nostra intenzione o la nostra percezione della realtà come vorremmo che fosse, e quindi va accettata come “reale”?

Chiaramente la questione dell’autenticità e del realismo di un’immagine è molto più complessa e ricca di sfumature rispetto al banale “sì” oppure “no” di un’etichetta semplicistica come quella proposta da Meta. E questa necessità di sfumature, forse, è la lezione di realtà più importante di tutte.

 

Fonti aggiuntive: Crikey, Art-vibes, PetaPixel, Reddit.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Ci ha lasciato Bill Anders, astronauta lunare. Sua la storica foto della Terra vista dalla Luna

8 de Junho de 2024, 15:13, por Il Disinformatico
Bill Anders tiene in mano il modello di una capsula Gemini e di un veicolo-bersaglio Agena, nel 1964. Foto S64-31555.

È morto a 90 anni Bill Anders, uno dei tre protagonisti della storica missione Apollo 8, la prima a spingersi con un equipaggio nello spazio profondo, uscendo dall’orbita terrestre e avventurandosi a 400.000 chilometri dalla Terra per orbitare intorno alla Luna, a dicembre del 1968, insieme a Jim Lovell e Frank Borman.

Fu lui a scattare l’altrettanto storica e celebre fotografia della Terra vista dalla Luna: le sonde spaziali avevano già ottenuto immagini simili, ma questa era la prima scattata da mano umana, da un testimone oculare della bellezza terrificante di quella fragile biglia sospesa nel nero ostile dello spazio.

Foto AS8-14-2383.

Anders è morto in un incidente aereo nelle isole di San Juan (comunicato stampa dell’ufficio dello sceriffo della contea). Il suo velivolo è stato ritrovato sott’acqua e il suo corpo è stato recuperato dai sommozzatori dopo estese ricerche. Al momento non risultano altri occupanti. Bill Anders lascia la moglie, Valerie, e sei figli.

Fonte: CNN.

La pagina commemorativa della NASA è www.nasa.gov/former-astronaut-william-a-anders. Il direttore generale (Administrator) dell’ente spaziale statunitense, Bill Nelson, lo ricorda così nel comunicato ufficiale:

“In 1968, as a member of the Apollo 8 crew, as one of the first three people to travel beyond the reach of our Earth and orbit the Moon, Bill Anders gave to humanity among the deepest of gifts an explorer and an astronaut can give. Along with the Apollo 8 crew, Bill was the first to show us, through looking back at the Earth from the threshold of the Moon, that stunning image – the first of its kind – of the Earth suspended in space, illuminated in light and hidden in darkness: the Earthrise.

“As Bill put it so well after the conclusion of the Apollo 8 mission, ‘We came all this way to explore the Moon, and the most important thing is that we discovered the Earth.’

“That is what Bill embodied – the notion that we go to space to learn the secrets of the universe yet in the process learn about something else: ourselves. He embodied the lessons and the purpose of exploration.

“The voyage Bill took in 1968 was only one of the many remarkable chapters in Bill’s life and service to humanity. In his 26 years of service to our country, Bill was many things – U.S. Air Force officer, astronaut, engineer, ambassador, advisor, and much more.

“Bill began his career as an Air Force pilot and, in 1964, was selected to join NASA’s astronaut corps, serving as backup pilot for the Gemini XI and Apollo 11 flights, and lunar module pilot for Apollo 8.

“He not only saw new things but inspired generation upon generation to see new possibilities and new dreams – to voyage on Earth, in space, and in the skies. When America returns astronauts to the Moon under the Artemis campaign, and ultimately ventures onward to Mars, we will carry the memory and legacy of Bill with us.

“At every step of Bill’s life was the iron will of a pioneer, the grand passion of a visionary, the cool skill of a pilot, and the heart of an adventurer who explored on behalf of all of us. His impact will live on through the generations. All of NASA, and all of those who look up into the twinkling heavens and see grand new possibilities of dazzling new dreams, will miss a great hero who has passed on: Bill Anders.”

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Podcast RSI - Strana mail di Meta; Windows 11 vuole registrare tutto

7 de Junho de 2024, 14:00, por Il Disinformatico
logo del Disinformatico

Ultimo aggiornamento: 2024/06/07 18:55.

È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate qui sul sito della RSI (si apre in una finestra/scheda separata) e lo potete scaricare qui.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, Google Podcasts, Spotify e feed RSS.

Buon ascolto, e se vi interessano il testo di accompagnamento e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.

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[CLIP: voce da speaker (generata da IA) legge un brano della mail di Meta]

Due giganti dell’informatica, Meta e Microsoft, presentano grandi novità nei loro prodotti. Meta annuncia che userà i dati degli utenti per addestrare le proprie intelligenze artificiali, mentre Microsoft presenta Recall, una funzione di Windows 11 che registra tutto quello che viene mostrato sullo schermo e lo fa analizzare e classificare da un’intelligenza artificiale. Ma in entrambi i casi, gli esperti criticano fortemente queste novità: non solo per le loro implicazioni tecniche potenzialmente pericolose, ma anche per questa scelta di imporre agli utenti nuove funzioni che non hanno chiesto, sono molto invadenti e una volta attivate sono molto difficili da disattivare.

Benvenuti alla puntata del 7 giugno 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]

La mail di Meta sull’IA, spiegata

Se siete su Facebook o Instagram e vivete in Europa (intesa come regione geografica), probabilmente avete già ricevuto da Meta una mail che parla di aggiornamenti dell’informativa sulla privacy ed è scritta in burocratese stretto, con espressioni come “siamo pronti a espandere la nostra IA nelle esperienze Meta alla tua area geografica” oppure “Per consentirti di vivere queste esperienze, da adesso in poi ci affideremo alla base giuridica denominata interesse legittimo per l'uso delle tue informazioni al fine di sviluppare e migliorare l'IA di Meta”. Chiaro, no?

Sembra il solito annuncio periodico di nessun interesse, inviato più che altro per formalità e per rispettare gli obblighi di legge e quindi tranquillamente cestinabile, ma non è così. Tradotta in italiano normale, quella mail dice che se non vi opponete formalmente, dal 26 giugno prossimo Meta userà tutto quello che pubblicate sui suoi social network, quindi Facebook e Instagram e forse anche WhatsApp, per addestrare i suoi sistemi di intelligenza artificiale.

In altre parole, se non agite adesso, tutto quello che avete mai scritto nei messaggi pubblici e tutte le foto, gli audio e i video che ritraggono voi o i vostri eventuali figli e che avete messo sui social network di Meta in questi anni entreranno a far parte del cosiddetto corpus, ossia dell’immensa quantità di dati necessaria per far sembrare intelligenti questi prodotti.

Potreste pensare che questo non sia un problema. Tanto si tratta di testi, immagini, video e audio pubblici, non di messaggi privati (che stando a quanto dichiara Meta sono esclusi), quindi che male c’è se Meta li usa per migliorare la propria intelligenza artificiale? In fin dei conti sono dati che le avete già affidato quando li avete postati.

Ma c’è un dettaglio importante: Meta non precisa come userà quei dati. Non dice che tipo di intelligenza artificiale intende creare. Potrebbe trattarsi di un semplice chatbot per conversare, ma potrebbe anche essere un sistema che eroga pubblicità super-personalizzate basate su tutto quello che avete mai detto, fotografato o scritto. O potrebbe essere un’intelligenza artificiale che usa i vostri dati, la vostra voce, il vostro volto per creare un vostro clone digitale, che potrebbe dire o fare qualunque cosa, con il vostro aspetto e con il vostro esatto modo di parlare: un alter ego, un assistente virtuale, oppure un impostore.

Se entrano a far parte del corpus, i vostri volti o quelli dei figli o degli amici o dei familiari possono spuntare in immagini false o di propaganda o pornografiche. E come osserva anche l’esperto Matteo Flora, un fotografo, un cantante o un musicista che non rifiuta questo trattamento dei suoi dati potenzialmente permette a Meta di creare foto e canzoni nel suo stesso stile e con la sua voce.

In sintesi: dare carta bianca a qualunque possibile uso futuro è un rischio, soprattutto quando c’è di mezzo un’azienda che ha già dimostrato, come dire, una certa disinvoltura nell’uso dei dati dei suoi utenti per scopi socialmente dannosi. E Meta parla esplicitamente di cedere questi dati a terzi, di cui non sappiamo assolutamente nulla.

Di conseguenza, il consiglio degli esperti e delle associazioni di difesa dei diritti digitali è rifiutare questo nuovo tipo di trattamento dei nostri dati, che non è lo scopo per il quale li abbiamo concessi inizialmente, e chiedere anche a parenti, amici e colleghi di fare la stessa cosa. Infatti Meta avvisa che farà comunque elaborazione delle informazioni personali anche di chi ha rifiutato, se trova quelle informazioni nei post di qualcun altro che non ha rifiutato il trattamento. Quindi serve la collaborazione di tutti.

Come dire di no a Meta

Rifiutare il trattamento dei propri dati per l’intelligenza artificiale di Meta è abbastanza semplice: si clicca sulle parole “diritto di opposizione” nella mail, oppure si entra nel proprio account Facebook o Instagram e si va direttamente al link

https://privacycenter.instagram.com/privacy/genai

e lì si clicca sulle stesse parole “diritto di opposizione” nella parte finale della pagina. Non vi preoccupate di prendere nota di questo link: lo trovate presso Disinformatico.info, come tutte le altre fonti che cito in questo podcast.

[per chi ha un account Facebook, il link da usare è https://www.facebook.com/privacy/genai e le parole da cliccare sono “diritto di contestare”]

Fatto questo, avrete sullo schermo un modulo da compilare, intitolato “Contesta l'uso delle tue informazioni per l'IA di Meta”, e qui indicherete il vostro paese di residenza e il vostro indirizzo di mail e scriverete la spiegazione del vostro rifiuto. Se volete potete usare la spiegazione che ho usato io e che mi è stata ispirata da Fabienb.blog:

[CLIP: voce sintetica che legge le seguenti frasi: “Sono preoccupato del rischio che i miei dati vengano utilizzati in modi che non posso né controllare né prevedere. Rifiutando di partecipare al training dell’intelligenza artificiale, voglio assicurarmi che i miei dati vengano utilizzati esclusivamente per le funzioni di base dei prodotti di Meta, non per applicazioni future non ancora identificate e in modi sconosciuti e indesiderati.”]

Il modulo proposto da Instagram.

Cliccando sul pulsante Invia, il vostro rifiuto verrà inviato a Meta, che vi manderà via mail un codice di conferma di sei cifre. Immettendo questo codice e cliccando su Conferma, la richiesta di opposizione verrà trasmessa a Meta, che si riserverà di accettarla. Tutto qui: non occorre fare altro. Se tutto va bene, nel giro di qualche ora vi arriverà una mail di conferma che la vostra opposizione è stata accolta.

Nel frattempo sono già partite le prime azioni legali da parte di associazioni come lo European Center for Digital Rights, che accusano Meta di non rispettare la legge e in particolare di non rispettare il regolamento europeo GDPR. Secondo loro, infatti, questo regolamento richiede che l’utente dia il consenso esplicito per un nuovo trattamento dei suoi dati, come quello che sta per iniziare Meta; senza questo consenso i dati non si possono trattare. E invece Meta sta facendo il contrario, ossia sta dando per scontato il consenso di tutti e sta obbligando gli utenti a opporsi uno per uno.

Non è così che si conquista la fiducia degli utenti. Ma probabilmente Meta conta più sull’indifferenza che sulla fiducia.

Fonti aggiuntive: Mashable, EuroNews.


Windows 11: Recall vuole registrare tutto quello che fai

Il 20 maggio scorso Microsoft ha presentato una nuova funzione di Windows 11, chiamata Recall, che è una sorta di super-cronologia delle attività svolte al computer. Prossimamente, Windows farà automaticamente e in continuazione degli screenshot, ossia delle istantanee di quello che c’è sullo schermo del vostro computer, e userà l’onnipresente intelligenza artificiale per analizzare localmente il testo e le immagini presenti in questi screenshot. La funzione è già disponibile oggi per chi usa le versioni di anteprima di Windows 11.

[NOTA: per il momento, Recall viene installato soltanto sui computer di tipo Copilot+ con processore ARM e processore neurale o NPU, che sono una decina di modelli di varie marche, ma secondo Total Recall Microsoft dichiara di voler fornire supporto anche per i computer con processori AMD e Intel]

Questo permetterà all’utente di tornare indietro nel tempo, con un semplice clic, e rivedere cosa stava facendo al computer in qualunque momento degli ultimi tre mesi circa. Le istantanee dello schermo verranno catalogate e riordinate per categoria e sarà possibile fare ricerche per parole chiave all’interno di questa cronologia.

Per esempio, se sfogliando Internet avete visto una foto di un oggetto o di un prodotto ma non vi ricordate dove e quando l’avete visto, potrete ritrovarlo semplicemente scrivendone il nome, anche se l’oggetto è stato mostrato solo in fotografia, senza testo descrittivo. Ci penserà infatti Recall a riconoscere e catalogare gli oggetti e le persone presenti nelle foto. Il CEO di Microsoft, Satya Nadella, descrive Recall come una specie di memoria fotografica per i computer.

[CLIP di Nadella, tratto da questo post Mastodon di Kevin Beaumont. Diversamente da quello che dico nei saluti di coda, la clip è la sua voce reale e non è generata da IA]

Se ascoltando questa descrizione di Recall vi è venuto da pensare “Aspetta un momento…”, non siete i soli. Numerosi esperti di sicurezza informatica stanno segnalando Recall come se fosse la madre di tutte le pessime idee e raccomandano di imparare come disattivarlo, visto che sarà attivo per impostazione predefinita.*

* 2024/06/07 18:55. Microsoft ha dichiarato che Recall sarà opt-in: durante la configurazione iniziale del computer verrà offerta la possibilità di impostare Recall, che sarà disattivato per default (The Verge).

A livello istintivo, l’idea che il computer registri, cataloghi e annoti in continuazione e minuziosamente tutto ma proprio tutto quello che facciamo e tutti i siti che visitiamo dà un pochino i brividi per ovvie ragioni. Ma anche dal punto di vista tecnico, Recall pone problemi molto seri.

Per esempio, se vi collegate alla vostra banca per fare delle transazioni, Recall catturerà e archivierà schermate che contengono i vostri dettagli contabili. Se aprite una mail confidenziale, verrà letta e copiata in archivio da Recall. Se fate una chat segreta usando Signal o un altro sistema di messaggistica, quella chat verrà letta e conservata da Recall. Se custodite e gestite dati altrui per lavoro, per esempio in campo medico, una copia di quei dati finirà nella memoria di Recall, impedendovi di garantire ai vostri clienti che i loro dati personali siano stati davvero cancellati dopo l’uso. 

Certo, questi dati vengono conservati localmente, sul vostro computer, e non vengono passati a Microsoft, ma se un attacco informatico colpisce il vostro computer, gli intrusi potranno andare a colpo sicuro rubando l’archivio di Recall, dove troveranno tutti i dati che interessano a loro, già comodamente catalogati e classificati, invece di dover perdere tempo a cercarseli. Fra l’altro, l’archivio non è cifrato adeguatamente ed è semplicemente un database leggibile con molta facilità.

Una password viene rivelata da Recall. Fonte: Marc-André Moreau su Twitter/X.

Per dirla con le parole dell'esperto di sicurezza informatica Kevin Beaumont, “In sostanza sta per essere integrato in Windows un keylogger, presentato come una funzione positiva”. Un keylogger è un’applicazione ostile che registra di nascosto qualunque cosa venga digitata sulla tastiera e cattura delle schermate e poi manda il tutto all’aggressore informatico. Con Recall, la registrazione la fa già direttamente Windows e agli intrusi non resta che scaricarla, via Internet o localmente.

Certo, Recall è disattivabile, ma quanti utenti sanno farlo? Il problema è che è appunto attivato per impostazione predefinita, per cui spetta all’utente scoprire prima di tutto che esiste questa funzione e poi scoprire anche come disattivarla [istruzioni in italiano su IlSoftware.it], cosa tutt’altro che semplice; e come per le nuove funzioni di Meta, anche qui la novità viene imposta e sta all’utente ingegnarsi a respingerla. Sembra proprio che le aziende facciano fatica a comprendere il concetto di proporre le loro novità anziché imporle.

Il garante per la protezione dei dati personali britannico ha già avviato un’indagine, e stanno già nascendo i primi strumenti di analisi dei database di Recall [c’è anche un TotalRecall, con chiara citazione del film omonimo]. La questione è in rapida evoluzione; se ci saranno novità, le segnalerò nelle prossime puntate. Nel frattempo, ricordatevi questo nome: Recall.

Fonti aggiuntive: Kevin Beaumont (uno, due), Euronews, Ars Technica, Charlie StrossDDay.it.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


Podcast RSI - Quando un diritto diventa un reato: app di tracciamento del ciclo mestruale, rischio di persecuzione governativa

4 de Junho de 2024, 18:49, por Il Disinformatico
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È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate qui sul sito della RSI (si apre in una finestra/scheda separata) e lo potete scaricare qui.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite iTunes, Google Podcasts, Spotify e feed RSS.

Buon ascolto, e se vi interessano il testo di accompagnamento e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.

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[CLIP: La scena del dazio dal film “Non ci resta che piangere” (1984)]

Questa scena, tratta dal film “Non ci resta che piangere” del 1984, è diventata simbolo di tante assurdità e cecità burocratiche. È un esempio decisamente ironico, e forse per raccontarvi la storia strana di informatica di questa settimana avrei dovuto citare qualche brano della serie TV distopica Il racconto dell’ancella, perché questa è la storia di un’app legata alla riproduzione umana ed è una storia che risponde perfettamente a una domanda che viene fatta spessissimo a chi si occupa di privacy e sicurezza digitale: “Ma che male c’è a dare qualche dato personale a un’app? Cosa vuoi che se ne facciano? Io non ho niente da nascondere”.

Siamo nel 2024, e negli Stati Uniti, non in un paese totalitario, le app di monitoraggio dell’ovulazione vengono usate per tracciare in massa la fertilità femminile, anche dai datori di lavoro, e per incriminare le donne che risultano sospette solo perché hanno un ciclo mestruale irregolare. Un dato che sembrava così innocuo è di colpo diventato potenziale indizio di reato.

Benvenuti alla puntata del 31 maggio 2024 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo, e vorrei avvisarvi che questa puntata tocca temi molto delicati riguardanti la riproduzione e la sessualità.

[SIGLA di apertura]

Benvenuti a Gilead

Questa storia comincia con una segnalazione su Reddit, ad aprile scorso, di un’app per il monitoraggio del ciclo mestruale di nome Ovia (App Store; Google Play), che ha iniziato da poco, dice la segnalazione, a chiedere in quale stato risiede l’utente, perché quest’informazione è necessaria per poter continuare a usare l’app.

Dato che la fisiologia umana fondamentale non varia in base ai confini di stato, viene spontaneo chiedersi come mai ci sia bisogno di specificare lo stato di residenza in quest’app. È una domanda che coinvolge le decine di milioni di persone che nel mondo usano app di questo genere, come BabyCenter, Clue, My Calendar o Flo, per tenere traccia del proprio ciclo o di quello dei familiari.

Nel 2019 l’app Ovia era stata criticata (Washington Post) perché condivideva i dati di salute dei suoi utenti con i loro datori di lavoro. Lo faceva, e lo fa tuttora, in forma aggregata e anonimizzata, certo, ma soprattutto in un’azienda piccola risalire alle identità precise delle persone alle quali si riferiscono i dati di salute è piuttosto banale, specialmente per situazioni molto palesi come una gravidanza, che è solo uno dei dati raccolti da quest’app.

I datori di lavoro possono infatti sapere quanti dipendenti hanno avuto gravidanze a rischio o parti prematuri e possono vedere le principali informazioni di natura medica cercate dalle utenti, i farmaci assunti, l’appetito sessuale, l’umore, i tentativi di concepimento, il tempo medio necessario per ottenere una gravidanza e i tipi di parto precedenti. Tutti dati immessi dalle persone, incoraggiate a farlo dai buoni spesa, circa un dollaro al giorno, offerti dall’app.

L’azienda che ha sviluppato l’app, Ovia Health, dice che tutto questo consente alle aziende di “minimizzare le spese sanitarie, scoprire problemi medici e pianificare meglio i mesi successivi” e aggiunge che la sua app “ha permesso alle donne di concepire dopo mesi di infertilità e ha anche salvato le vite di donne che altrimenti non si sarebbero rese conto di essere a rischio”.

Anche altre app dello stesso genere sono state criticate fortemente da Consumer Reports, una influentissima associazione statunitense di difesa dei consumatori, e da associazioni di attivisti tecnologici come la brasiliana Coding Rights, perché non tutelavano affatto la riservatezza delle persone, per esempio permettendo l’accesso ai dati sanitari altrui a chiunque conoscesse l’indirizzo di mail della persona presa di mira oppure passando direttamente i dati mestruali a Facebook.

Uno studio del 2019, pubblicato dal prestigioso British Medical Journal, ha rilevato che il 79% delle app relative alla salute disponibili nel Play Store di Google condivideva con terzi i dati sanitari degli utenti.

C’è un nome per questo sfruttamento commerciale dei dati sanitari delle donne: femtech. Alcune stime indicano che il mercato femtech, che “include le app di tracciamento mestruale, nutrizionale e di benessere sessuale”, potrebbe valere fino a 50 miliardi di dollari entro il 2025 (Washington Post).

Già così lo scenario era piuttosto orwelliano, ma il 2 maggio 2022 è successo qualcosa che ha trasformato una sorveglianza invadente in una trappola inquietante.

Da diritto a reato

In quella data, infatti, la stampa ha reso pubblica una bozza di parere della Corte suprema statunitense che indicava che il diritto costituzionale all’aborto, vigente in tutto il paese da quasi cinquant’anni, sarebbe stato eliminato, come è poi appunto avvenuto. Nel giro di pochi mesi, numerosi stati americani hanno vietato l’aborto quasi completamente, in qualunque circostanza, senza eccezioni per violenza sessuale o incesto e anche se la vita della donna è in pericolo (CNN).

In altre parole, un atto che per mezzo secolo era un diritto è diventato di colpo un reato. E altrettanto di colpo, i dati accumulati dalle app di tracciamento mestruale sono diventati potenziale indizio o prova di reato, come hanno fatto notare sui social network varie persone esperte di sicurezza informatica, come Eva Galperin, della Electronic Frontier Foundation o l’attivista e avvocato Elizabeth McLaughlin, che hanno consigliato esplicitamente di smettere di usare queste app e di cancellare tutti i dati.

Il rischio che quei dati vengano usati contro le utenti, infatti, è decisamente concreto. Anche prima di quel grande scossone del 2022, era già capitato che funzionari governativi statunitensi che sostenevano idee antiabortiste si procurassero dati provenienti da queste app. Nel 2019 l’ex direttore tecnico sanitario del governo del Missouri, Randall Williams, aveva fatto redigere uno spreadsheet che tracciava le mestruazioni delle donne che avevano visitato le sedi di Planned Parenthood, una organizzazione no-profit che fornisce assistenza alla procreazione pianificata (CNN). E lo stesso anno il direttore del programma di reinsediamento dei rifugiati, Scott Lloyd, attivista contro l’aborto, aveva dichiarato di aver tracciato i cicli mestruali delle giovanissime migranti nel tentativo di impedire che abortissero (Harper’s Bazaar).

È facile pensare che queste siano situazioni estreme che si verificano negli Stati Uniti e che non potrebbero mai capitare qui da noi grazie ai paletti imposti alle aziende dal GDPR e dalla Legge federale sulla protezione dei dati, ma secondo Lee Tien, consulente legale della Electronic Frontier Foundation, anche le aziende europee sono soggette alle procedure legali statunitensi grazie a vari trattati internazionali, e quindi è possibile che i dati personali di un’app di tracciamento sanitario europea possano essere comunque richiesti da un’azione legale che parte dagli Stati Uniti (KFF Health News).

Sono situazioni come questa che fanno dire agli esperti di sicurezza informatica, come Mikko Hyppönen, che argomentare che non c’è da preoccuparsi per queste raccolte di massa di dati personali, perché tanto siamo cittadini onesti e non abbiamo niente da nascondere, semplicemente “non ha senso”.

Non ha senso perché un dato, una volta rilasciato, è rilasciato per sempre, e non abbiamo idea se un dato che oggi non è problematico lo sarà invece in futuro. Un altro esempio in questo senso arriva sempre dagli Stati Uniti, ma in un campo che a prima vista sembra completamente differente: i sistemi di lettura automatica delle targhe dei veicoli.

Diffusissimi fra le forze di polizia e anche fra le aziende, questi sistemi memorizzano oltre un miliardo di passaggi di veicoli ogni mese. L’intento originale era usarli per tracciare i veicoli coinvolti in reati, cosa difficilmente criticabile, ma come fa notare la rivista Wired, questi sistemi possono anche tracciare i veicoli che attraversano un confine di stato, per esempio per portare una persona in uno stato in cui l’aborto è ancora legale. E dato che le targhe sono per definizione esposte al pubblico, non occorre un mandato per procurarsi i dati raccolti da questi lettori automatici (EFF; The Guardian).

Come dice Hyppönen, “possiamo forse fidarci dei nostri governi attuali… ma ci fidiamo ciecamente di qualunque possibile governo futuro, di un governo che potremmo avere fra cinquant’anni?”

[CLIP: citazione di Mikko Hyppönen, tratta da un TEDx Talk del 2011: “And while we might trust our governments right now […], do we blindly trust any future government, a government we might have 50 years from now?”]

Resistenza digitale

La segnalazione su Reddit dalla quale è partita questa storia è diventata virale ed è stata accompagnata da ulteriori avvisi di altri utenti, pubblicati direttamente nelle pagine di download dell’app di tracciamento mestruale in questione per mettere in guardia chi la scarica. Il consiglio ricorrente, in questi avvisi, è non solo di non usare questa app, ma di non usare nessuna app che raccolta dati legati alla sfera intima e di tornare ai vecchi sistemi cartacei: il calendario o l’agendina di una volta, insomma. La paura, infatti, è che una donna che ha un ciclo irregolare possa essere identificata erroneamente come una persona che ha abortito e venga quindi accusata di un reato che non ha commesso, con tutto quello che ne consegue.

Certo, oggi siamo tutti abituati a fare qualunque cosa tramite app, ma la comodità di avere tutto nello smartphone ha un prezzo, e quel prezzo può cambiare in qualunque momento, difficilmente a favore di noi utenti.

Nel frattempo, grazie alle segnalazioni di questo problema è nata una forma di resistenza informatica molto particolare: numerose persone di ogni orientamento stanno scaricando queste app, il cui uso è solitamente gratuito, e le stanno adoperando per tracciare qualunque evento ciclico tranne le mestruazioni. L'intento è riempire di dati fasulli e incomprensibili gli archivi delle aziende che gestiscono queste app, in modo da contaminare il loro database, fargli perdere valore commerciale e impedire agli algoritmi predittivi di funzionare correttamente.

Visto il numero elevatissimo di utenti, questo tipo di sabotaggio probabilmente non sarà molto efficace dal punto di vista pratico e diretto, ma aiuterà a far conoscere il problema e a far capire perché le leggi sulla privacy dei dati sembrano una scocciatura ma sono in realtà così importanti. Servono, in sostanza, a evitare che si passi dal non avere nulla da nascondere al non avere più nulla da nascondere.

Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.


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