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Disinformatico

4 de Setembro de 2012, 21:00 , por profy Giac ;-) - | No one following this article yet.
Blog di "Il Disinformatico"

App Immuni pronta da scaricare

1 de Junho de 2020, 17:09, por Il Disinformatico

Immuni, l’app italiana di ausilio contro i contagi da nuovo coronavirus, è pronta da scaricare per iPhone e telefonini Android sui rispettivi store. Gli smartphone Huawei non-Google sono sono ancora coperti.

Ho riassunto le caratteristiche principali di Immuni in questi articoli: uno, due. Non dimenticate di leggere le risposte alle domande più frequenti presenti sul sito di Immuni.

Anche se vivo in Svizzera e ho già installato l’app svizzera (SwissCovid), ho installato anche Immuni sul mio telefonino Android. Non possono funzionare contemporaneamente: devo attivare una o l’altra.

Dato che è obbligatorio indicare una provincia, ho scelto Pavia, visto che lì c’è buona parte della mia famiglia. Immuni non ha fatto una piega nonostante il mio telefonino sia in questo momento in Svizzera.

Ho notato inoltre che Immuni disabilita la possibilità di fare screenshot (perlomeno nella versione Android). Curioso. Inoltre ha un limite di età: bisogna dichiarare di avere almeno 14 anni. Nell’app svizzera non c’è distinzione di età. Immuni contiene anche un’altra cosa che manca all’app svizzera: un avviso che mette in guardia contro messaggi ingannevoli di provenienza truffaldina.
Scritto da Paolo Attivissimo per il blog Il Disinformatico. Ripubblicabile liberamente se viene inclusa questa dicitura (dettagli). Sono ben accette le donazioni Paypal.



Antibufala: Aiuto, c’è un topo nello spazio!

1 de Junho de 2020, 10:31, por Il Disinformatico

Mi stanno arrivando segnalazioni secondo le quali numerosi diversamente furbi, laureatisi in propulsione aerospaziale all’Università Missilistica di YouTube, dicono di aver “scoperto” un topolino che corre lungo il motore di un razzo di SpaceX mentre si trova nel vuoto dello spazio.

Questi supremi intelletti social pensano che questa sia la prova di una messinscena. Certo, perché se vuoi ingannare il mondo intero, lasci disinvoltamente che si veda un topolino a passeggio nei tuoi finti video spaziali. Evidentemente gli ottusangoli proiettano sugli altri i propri limiti cognitivi.


Dice per esempio il Kandinsky Fabio:

Stasera vi racconto il top delle fake, che supera di gran lunga anche il ginovirus.
Avrete sicuramente sentito che Elon Musk con la sua navicella ha mandato due uomini sull'ISS in collaborazione con la NASA.
Non contento ci ha fatto vedere anche il video della missione che io ho nominato "missione mikymouse"
Si... è proprio un topo che esce dal domopak e che viaggia a 300km di altitudine.
Capite qual è il livello di presa per il culo?
Capite che stanno giocando con le vostre "credenze"?

Il “topo” sarebbe la macchiolina grigia indistinta accanto al grande tubo trasversale, al centro dell’immagine. Come facciano questi eccentrici a vederci un topo è incomprensibile. Si vede lontano un miglio che è una donnola albina sporca di fuliggine che ha in bocca i suoi piccoli e uno stuzzicadenti, dai.

In realtà basta conoscere un minimo la tecnologia dei motori usati da SpaceX (o avere l’umiltà di chiedere a chi la conosce) per capire che si tratta semplicemente di ossigeno liquido sfiatato dal razzo e ghiacciatosi istantaneamente. Lo si vede spesso nelle dirette dei lanci di SpaceX: forma a volte fiocchi anche piuttosto vistosi. Si muove perché è spostato dai vortici che si formano sopra il motore. Quando arriva a contatto con le parti calde del motore, evapora. Tutto qui. Questo video di Mick West lo documenta molto bene.


West ha raccolto in questo articolo numerosissimi esempi del fenomeno e creato questa GIF animata, riferita alla missione CRS-19 di SpaceX, partita a dicembre 2019:



Gli unici topi coinvolti in questa vicenda sono quelli che hanno fatto il nido nella teca cranica disabitata degli incompetenti arroganti che pensano di sapere tutto e danno del cretino agli altri.


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SpaceX: Scusi, dov’è la toilette?

1 de Junho de 2020, 9:43, por Il Disinformatico

Scusate se mi lascio andare a un momento di frivolezza, ma è uno dei pochi modi che mi restano per sopportare la pazzia che ci sta circondando. Come probabilmente sapete, una delle mie conferenze più gettonate riguarda la storia dei gabinetti spaziali: è la risposta tecnica alla domanda-tormentone che affligge tutti gli astronauti e cosmonauti.

Con il debutto formale della capsula Crew Dragon di ieri, ora c’è un nuovo veicolo spaziale che trasporta un equipaggio, e quindi vorrei aggiornare la mia conferenza con i dettagli della sua toilette. Ma non ce ne sono.

Sembra che ci sia una cortina di segreto molto pesante intorno a quest’argomento, manco fosse un segreto di stato. Nel caso della futura capsula Orion per viaggi verso la Luna, nessuna reticenza: sarà situata nel “pavimento” dell’abitacolo, sotto i sedili, e la pagina informativa della NASA fornisce altri dettagli. Ma SpaceX tace.

L’unica informazione che ho trovato finora è una dichiarazione dell’astronauta Garrett Reisman, che ha lavorato a lungo allo sviluppo della Dragon: ha detto che esiste (è già qualcosa) e si trova “verso il soffitto, ma ovviamente a zero G questo non ha importanza”. Anche Wikipedia parla (senza fonte) di una toilette “con una tendina per la privacy” situata al di sopra dei sedili.

Il video di SpaceX mostrato qui sotto offre una panoramica dell’interno della Dragon, e a parte quei due sportelli in alto sopra i sedili, accanto al portello superiore, non sembra esserci alcun altro posto per alloggiare un vano usabile come toilette. O, per usare il gergo tecnico inevitabile delle missioni spaziali, il waste removal system o Universal Waste Management System (UWMS).


Ci sono molti altri video degli interni, ma nessuno fornisce dettagli più precisi. Hans Koenigsmann, vice presidente per la mission assurance di SpaceX, ha rifiutato di fornire dettagli in risposta a una domanda specifica il 25 maggio scorso, dicendo di non sapere la “risposta da vasino alla domanda sul vasino”.

I due astronauti che hanno viaggiato a bordo della Crew Dragon per circa diciannove ore, Bob Behnken e Doug Hurley, dicono che ci faranno sapere al rientro. Ma non è detto che abbiano usato la toilette di bordo, se esiste, perché hanno sempre l’opzione di un Maximum Absorbency Garment (un pannolone, in sostanza) e comunque capita spesso agli astronauti di “tenersela” (perlomeno la parte solida) per le poche ore del viaggio, in attesa di usare la toilette della Stazione.

Se qualcuno ne sa di più, me lo segnali nei commenti o privatamente ai soliti contatti.

Aggiornamento: da Twitter mi segnalano che un utente di Forumastronautico.it ha notato quello che sembra essere un simbolo di toilette maschile e femminile, evidenziato dal circolino rosso in quest’immagine tratta dalla diretta del volo della Crew Dragon.




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Storie di Scienza: l’uomo che pesò il mondo

31 de Maio de 2020, 8:21, por Il Disinformatico

In un periodo in cui opinionisti, movimenti politici e presidenti di superpotenze mettono continuamente in discussione i fatti scientifici e alimentano volutamente la diffidenza verso il sapere e verso chi sa, forse è il caso di ricominciare dalle basi, per riavvicinare la scienza alla persona comune e far capire che i fatti scientifici non sono dogmi calati dall’alto, ma sono il risultato di osservazioni, misurazioni ed esperimenti. Ogni fatto accertato diventa una base sulla quale fare altre osservazioni, misurazioni ed esperimenti e costruire un castello di conoscenze.

Quei fatti fondamentali sono spesso verificabili con esperimenti incredibilmente semplici e intuitivi, spesso elegantissimi, che chiunque può ripetere con un po’ di buona volontà. La scienza, in questo senso, è democratica: i suoi materiali e metodi sono a disposizione di chiunque. Non c’è bisogno di affidarsi alle autorità.

Questa è la storia di come un uomo ha pesato la Terra usando soltanto un’asta di legno, un filo metallico e quattro sfere di piombo. Nel Settecento. Niente computer, niente elettricità, niente laser: solo materiali semplici e soprattutto un cervello fino.e

Quando una persona comune si sente dire che la massa del nostro pianeta è circa 5,97 x 1024 chilogrammi, è abbastanza comprensibile che possa avere la sensazione che sia un numero detto a vanvera, impossibile da verificare. Gli scienziati potrebbero dirci che è 12,42 x 1012 chilogrammi e noi non potremmo sapere se ci stanno prendendo in giro o no.  Non possiamo mettere il pianeta su una bilancia. Ma allora come fanno gli scienziati a dare quel numero? Come sono arrivati a questo risultato, fondamentale per capire la scala del Sistema Solare e poi da lì quella del resto dell’Universo?

Lo scozzese Henry Cavendish, figlio del Duca del Devonshire, un timidone che aveva paura delle donne e passava il proprio tempo a fare esperimenti scientifici, ebbe un colpo di fortuna. Intorno al 1783 il geologo e reverendo John Michell aveva concepito un esperimento e progettato uno strumento per misurare il peso specifico della Terra, ma era morto una decina d’anni più tardi senza completare questo lavoro, che fu ripreso e completato da Cavendish.

Lo strumento era una bilancia di torsione: un apparecchio rudimentale ma straordinariamente sensibile, capace di misurare l’attrazione gravitazionale fra due oggetti. Che c’entra con la massa della Terra? Ci arriviamo tra poco.

Immaginate di sollevare un oggetto: un libro, un sacchetto della spesa, il vostro partner o figlio. La vostra forza muscolare sta vincendo l’attrazione gravitazionale di un intero pianeta. Ci vuole tutta la massa di un oggetto enorme come la Terra per generare una gravità che riuscite a battere con i vostri muscoli (la Terra si prenderà la rivincita se provate a saltare da qualche metro di altezza, ma questa è un’altra storia). Pensate quindi quanto possa essere spaventosamente minuscola l’attrazione gravitazionale fra due oggetti comuni: il vostro corpo e una casa. A tutti gli effetti pratici, quest’attrazione è assolutamente trascurabile: l’attrito fra i vostri piedi e il terreno impedisce alla casa di tirarvi.

Per misurare questa attrazione, e da lì arrivare a “pesare” la Terra, bastano letteralmente un’asta di legno lunga 180 centimetri (o sei piedi, viste le unità di misura dell’epoca), un filo metallico, due sferette di piombo da 5 centimetri (due pollici) di diametro, che pesano 730 grammi, e due sfere di piombo più grandi, con un diametro di 12 pollici (circa 30 centimetri), che pesano 158 chili ciascuna. Si appende l’asta al filo metallico, si agganciano le sferette alle estremità dell’asta e si racchiude il tutto in una massiccia cassa di legno in modo che non possano esserci spifferi o altri disturbi. Così:

Illustrazione originale dall’articolo di Cavendish Experiments to determine the Density of the Earth (1978). Fonte della versione digitalizzata: Wikipedia.


Una volta che il meccanismo si stabilizza e non oscilla più (come verificato guardando attraverso le due aperture praticate nella cassa e usando le lampade a olio per illuminarne l’interno), si piazzano le sfere grandi a una ventina di centimetri dalle sfere piccole. La minuscola attrazione gravitazionale fra le sfere grandi e quelle piccole le fa avvicinare, ruotando l’asta appesa e torcendo il filo dal quale pende. Il filo, torcendosi, oppone resistenza, per cui le sfere si avvicinano fino a raggiungere un nuovo equilibrio in cui l’attrazione gravitazionale fra le sfere è equivalente alla forza di torsione impartita al filo. Da qui il nome bilancia di torsione. Misurando il valore di questa forza di torsione si conosce l’attrazione fra le sfere.

Le sfere dello strumento di Michell e Cavendish si avvicinarono di poco più di quattro millimetri: poco, ma comunque sufficiente a dimostrare in maniera visibile, concreta e facilmente ripetibile che la gravità esiste e funziona come dice la scienza, con buona pace dei terrapiattisti. Non c’era altro modo di spiegare quei quattro millimetri.

Il rapporto fra l’attrazione gravitazionale delle sfere grandi e quella della Terra sulle sferette permise a Cavendish di calcolare (con un errore strumentale di circa l’1% rispetto agli strumenti odierni) il peso specifico del pianeta (5,51 g/cm3) applicando la formula della gravitazione universale scoperta da Newton cent’anni prima. Sapendo il diametro della Terra, si capì che questo valore era troppo alto per pensare che il mondo fosse fatto interamente di roccia al proprio interno: era necessario ipotizzare un nucleo molto denso, quindi metallico. Niente più Viaggio al centro della Terra con Jules Verne, ma anche tanti saluti ai teorici della Terra cava.

Sapendo l’attrazione gravitazionale fra due oggetti e misurando l’accelerazione di gravità della Terra (9,81 m/s2) diventava possibile applicare le formule di Newton per calcolare la massa della Terra, e così Cavendish si vantò di aver “pesato il mondo”, visto che all’epoca massa e peso erano considerati equivalenti. Da questi dati e sapendo la durata e il diametro dell’orbita della Terra intorno al Sole, diventò possibile calcolare la massa della nostra stella.

Pesare un mondo e una stella usando soltanto legno, filo e piombo è un risultato davvero notevole, paragonabile per eleganza e potenza a quello della misura della curvatura della Terra da parte di Eratostene usando semplicemente la differenza fra le ombre in città distanti fra loro (e, ancora una volta, un cervello fino). Entrambe le dimostrazioni possono essere ripetute facilmente per eventuali dubbiosi, come ha fatto questa studentessa nella propria cameretta.

È su risultati tangibili come questi che si è costruito, un passo dopo l’altro, il sapere scientifico. Non è stata una fantomatica “scienza ufficiale” a decidere la velocità della luce, la struttura degli atomi, la temperatura crescente della Terra o l’efficacia dei vaccini. Anche i risultati scientifici più sofisticati, alla fine, poggiano su altri risultati più semplici, a loro volta fondati su esperimenti e osservazioni ancora più elementari.

La strada dal semplice al sofisticato è a disposizione di chiunque voglia ripercorrerla: non servono iniziazioni o strette di mano segrete.

Per riavvicinare l’opinione pubblica alla scienza è importante rivisitare questi esperimenti così semplici, potenti e concreti che dimostrino le sue basi, invece di limitarsi a dispensare formule da un libro di testo. Recitare aridamente agli studenti che g = 9,81 m/s2 è spiccio, ma suona come un ipse dixit; far cadere un palloncino pieno d’acqua dall’ottavo piano di un palazzo e misurarne il tempo di caduta con i video rallentati degli smartphone richiede più tempo, ma rende viva, reale e memorabile la scienza e ne imprime per sempre il metodo, prima che sia troppo tardi.


Una versione molto ridotta di questo articolo è stata pubblicata su Le Scienze nel 2018. Fonti aggiuntive: Juliantrubin.com, Associazione per l’Insegnamento della Fisica, Britannica.com, PhysicsClassroom.com. Questo articolo fa parte delle Storie di Scienza: una serie libera e gratuita, resa possibile dalle donazioni dei lettori. Se volete saperne di più, leggete qui. Se volete fare una donazione, potete cliccare sul pulsante qui sotto. Grazie!



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Storie di Scienza: Come vedere i continenti su mondi di altre stelle

31 de Maio de 2020, 5:40, por Il Disinformatico

Simulazione di un’immagine di un
esopianeta tramite un telescopio
a lente gravitazionale
(NASA/JPL-Caltech/Slava Turyshev)
Gli esopianeti, ossia i mondi che orbitano intorno alle stelle lontane, sono oggetti incredibilmente difficili da osservare. Non è solo questione di distanze cosmiche inimmaginabili: un esopianeta si perde nel bagliore intensissimo della sua stella. Osservarlo è come tentare di vedere una lucciola mentre abbiamo un fanale d’automobile puntato dritto negli occhi. È così difficile che finora siamo riusciti a fatica a scorgere alcuni di questi esopianeti come vaghi puntini.

Immaginate ora di avere uno strumento che vi consenta di vedere i dettagli di questi esopianeti: non solo le forme dei loro continenti e oceani, se ne hanno, ma anche di scorgere variazioni stagionali o eventuali grandi strutture costruite da entità intelligenti: una città, per esempio. Vedere questi pianeti non più come macchioline indistinte ma come luoghi, che hanno una geografia precisa da esplorare, sarebbe una rivoluzione non solo tecnologica ma anche culturale: ci renderebbe molto chiaro il concetto che la Terra è solo uno di un numero infinito di mondi.

Questo strumento è già realizzabile adesso, con le tecnologie esistenti o con loro affinamenti: si chiama Solar Gravity Lens, e funziona usando una tecnica affascinante. La sua lente primaria, infatti, è una stella intera: specificamente il Sole.

Costruire un telescopio tradizionale con una risoluzione sufficiente a vedere dettagli della superficie di un esopianeta a 100 anni luce dalla Terra è ben al di sopra delle nostre attuali capacità, dato che le inesorabili leggi dell’ottica obbligherebbero a creare uno specchio primario con un diametro di 90 chilometri. Ma possiamo “barare” grazie ad Einstein.

Infatti i campi gravitazionali, per esempio quello prodotto dal nostro Sole, deflettono la luce, come previsto da Einstein nel 1913, dimostrato spettacolarmente durante l’eclissi solare del 29 maggio 1919 e calcolato dal grande fisico in una sua pubblicazione su Science del 1936.

Non è pura teoria: gli astronomi hanno già osservato concretamente questo fenomeno, noto come gravitational lensing o lente gravitazionale, nelle immagini di galassie lontane, il cui aspetto risulta deformato perché la loro luce arriva a noi passando nelle vicinanze di un altro corpo celeste di grande massa (per esempio un’altra galassia relativamente più vicina).

La galassia rossastra al centro distorce la luce proveniente dalla galassia azzurra che le sta “dietro” dal punto di vista della Terra, formando un anello di Einstein. Immagine del telescopio spaziale Hubble, 2011 (ESA/Hubble/NASA).


Questa distorsione può essere sfruttata anche per ingrandire enormemente un oggetto lontanissimo come una galassia ai limiti dell’universo conosciuto (11,7 miliardi di anni luce, grazie ad ALMA) oppure un esopianeta. Secondo gli sviluppatori del progetto SGL, per sfruttare il Sole come “lente d’ingrandimento” occorre piazzare un telescopio da un metro (quindi più piccolo di Hubble) nel “punto focale” del nostro Sole. Un telescopio del genere sarebbe in grado di ottenere immagini di esopianeti situati a 30 parsec (circa 100 anni luce) con una risoluzione di dieci chilometri. Le basi concettuali di questo ipertelescopio furono gettate da Von R. Eshleman e approfondite dall’astronomo italiano Claudio Maccone e altri.

C’è un piccolo problema, però. Per un esopianeta a 100 anni luce, il punto focale del Sole, quello che consentirebbe di usare questo globo termonucleare largo 1,4 milioni di chilometri come il più esagerato dei teleobiettivi, si trova a 97 miliardi di chilometri dalla Terra. Sedici volte più lontano di Plutone. La sonda Voyager 1 ci ha messo 40 anni per arrivare a circa un quinto di quella distanza.

Chiaramente nessuno vuole aspettare duecento anni, per cui bisogna trovare un modo un po’ piu rapido di viaggiare nello spazio. Per fortuna esiste, e sfrutta di nuovo il Sole: al posto di motori a propellente chimico si può usare la gravità solare, lanciando il veicolo verso il Sole (con un vettore convenzionale) ma passandogli vicino in modo da riceverne un impulso di accelerazione, e si possono adottare le vele solari. Si tratta di enormi superfici ultrasottili che ricevono la tenuissima spinta della luce solare (sì, la luce esercita una pressione di radiazione misurabile e misurata da circa cent’anni). Questa spinta è costante, per cui un veicolo spaziale dotato di vele solari continuerebbe ad accelerare per tutto il tempo invece di avere solo il breve spunto iniziale dei razzi tradizionali. Il risultato è che una vela solare che trasportasse un telescopio raggiungerebbe la distanza di 97 miliardi di chilometri in circa venticinque anni.

Arrivato alla distanza giusta e nella posizione corretta, il telescopio SGL punterebbe i suoi sensori in direzione del Sole, schermandone però la luce con un coronografo: una barriera fisica circolare posta davanti al telescopio. È lo stesso principio che usiamo quando copriamo una luce intensa con la mano per poter vedere gli oggetti fiochi nelle vicinanze. In teoria si potrebbe usare al posto del Sole qualunque altro corpo celeste dotato di notevole massa ed eliminare il problema del bagliore della corona solare, ma questa soluzione renderebbe impraticabilmente grande la distanza focale da raggiungere.

Questo permetterebbe al telescopio di captare l’immagine di un esopianeta, distorta in un anello di Einstein, piazzandosi in modo da avere il Sole esattamente allineato con quell’esopianeta. In realtà l’anello sarebbe doppio: uno conterrebbe la luce proveniente da una singola area di circa 10 km di diametro dell’esopianeta, mentre l’altro conterrebbe la luce di tutto il resto del mondo alieno. Spostando leggermente il telescopio di circa un chilometro nelle varie direzioni si cambierebbe la zona dell’esopianeta “inquadrata” dal primo anello e quindi si potrebbe fare una lenta scansione di tutta la sua superficie. Osservando queste distorsioni per sei mesi ed elaborando circa un milione di immagini raccolte, sarebbe possibile escludere la luce della corona solare e ottenere un’immagine simile a quella (simulata) mostrata all’inizio di quest’articolo, eliminando persino le eventuali nuvole.

Oltre all’immagine della superficie, questo telescopio farebbe anche spettroscopia dell’esopianeta, consentendo di conoscere la composizione chimica della sua eventuale atmosfera. Se una civiltà aliena lo facesse con noi, puntando un telescopio a lente gravitazionale solare verso la Terra, potrebbe rilevare il repentino aumento della CO2 atmosferica e di altri inquinanti e dedurne la presenza di attività industriali da parte dei poco lungimiranti abitanti del pianeta.

Costruire un telescopio SGL è insomma una sfida ingegneristica notevolissima e comporta una precisione di navigazione eccezionale (il telescopio va piazzato al centro di un piano che misura 1 km per 1 km, a 90 miliardi di km dalla Terra) e difficoltà di radiocomunicazione senza precedenti, ma non richiede nulla che non sappiamo già.

Una flotta di questi telescopi, piazzati in vari punti e a varie distanze dal Sole, potrebbe osservare tutti i pianeti situati a meno di 100 anni luce dalla Terra (per via della struttura di un telescopio SGL, ne occorre uno dedicato a ogni singolo esopianeta). Nel giro di qualche decennio conosceremmo molto meglio il nostro vicinato e i nostri eventuali vicini.

Strada facendo, inoltre, questa flotta raccoglierebbe anche informazioni sulla natura del nostro sistema solare, analizzando l’eliosfera nella quale si muovono tutti i pianeti e cercando oggetti della Fascia di Kuiper. Permetterebbe inoltre di osservare onde gravitazionali e, grazie alla parallasse, potrebbe misurare la posizione precisa di ogni singola stella della nostra Galassia.

Il progetto attuale propone di usare sonde molto piccole con vele solari di dimensioni realisticamente fattibili (16 pannelli da 1000 metri quadri ciascuno) e di ridurre i costi lanciando queste sonde in ride sharing, ossia come carico aggiuntivo di altre missioni, evitando così il costo di un vettore di lancio dedicato come l’onerosissimo SLS.

Se tutto questo vi sembra troppo fantascientifico, soprattutto in un momento in cui facciamo fatica persino a uscire di casa in sicurezza, considerate che la NASA è interessata a questo concetto abbastanza da finanziarne le ricerche con 2 milioni di dollari dai fondi del programma NIAC (NASA Innovative Advanced Concepts).

E se l’idea di poter vedere i continenti di mondi lontanissimi vi pare irrealizzabile, tenete presente che a molti sembrava impossibile poter ottenere un’immagine di un buco nero. Poi è successo questo, usando un radiotelescopio virtuale grande quanto la Terra.

Credit: Event Horizon Telescope Collaboration.


L’ambizione degli astronomi di costruire strumenti sempre più grandi non conosce limiti. Un telescopio SGL lungo 90 miliardi di chilometri non è certo il limite della loro creatività nel trovare modi nuovi di estrarre informazioni dall’Universo. Che ne dite, per esempio, di un rivelatore di onde gravitazionali grande come una galassia? Ma questa è un’altra storia.


Fonti aggiuntive: Planetary Society; Planetary Science Vision 2050 Workshop 2017; Direct Multipixel Imaging and Spectroscopy of an Exoplanet with a Solar Gravity Lens Mission; Putting gravity to work: Imaging of exoplanets with the solar gravitational lens. Questo articolo fa parte delle Storie di Scienza: una serie libera e gratuita, resa possibile dalle donazioni dei lettori. Se volete saperne di più, leggete qui. Se volete fare una donazione, potete cliccare sul pulsante qui sotto. Grazie!



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